ÉtéTrad, non c'è tradizione senza trasformazione
Reportage dal festival valdostano, diretto da Vincent Boniface: folk, world music, ballo e nuove musiche ben consapevoli delle proprie radici
Non c’è tradizione senza trasformazione, né futuro senza conoscenza, questo il motto di ÉtéTrad, entusiasmante e nutrita rassegna di musiche tradizionali del mondo in Valle d’Aosta, magari a partire da uno sguardo privilegiato sulle antiche e trobadoriche sonorità della parabolica dorsale occitana (con organetti diatonici e medioevali ronzanti ghironde sempre in primo piano), magistralmente diretto dal talentuoso polistrumentista Vincent Boniface (polifiatista, organettista). Vincent è coraggioso erede di una valorosa stirpe di trovatori e ricercatori valdostani di Aymaville, la famiglia Boniface del bonario “griot” padre Sandro in primis, senza dimenticare gli insegnamenti della carismatica e dinamica madre Liliane Bertolo, valorosa vocalist e attenta studiosa, esponenti di una profonda cultura franco provenzale tutta da far prosperare e trasmettere, riuniti sotto la “ragione sociale” di Trouveur Valdotèn, di recente premiati al Premio Loano come miglior realtà culturale, in procinto di compiere i suoi primi quarant’anni di attività. Oltre a loro, il festival passa per le mani di Paolo Dall'Ara – presidente dell'Associazione ÉtéTrad – e di Hélène Impérial, nella veste di segretaria di produzione, oltre che in quelle di altri collaboratori affiatati (come, per esempio, l’onnipresente Marta Caldara, pianista folk/prog e signora del backstage).
Una manifestazione, ÉtéTrad, ormai considerata tra le migliori d’Europa nel suo campo, che quest’anno è giunta alla ventunesima edizione, svoltasi (come nei due anni precedenti e ancora per i prossimi due) nell’accogliente comune di Charvensod, nella verde area parco di Plan Felinaz (e non solo), dedicata al martire partigiano Guido Saba, a pochi passi dalla romana città di Aosta, sotto l’affascinante e incombente piramide della Becca di Nona e dei suoi vertiginosi tremila metri d’altezza.
A ÉtéTrad si celebra lo stare assieme attraverso il partecipato, armonioso e figurato ballo popolare e si coltiva l’ascolto condiviso e incantato di una musica di tradizione, spesso e volentieri a motore francofono, che si vuole in costante cambiamento, aperta al mondo e alle sue culture, sempre pronta a mettersi in gioco, riselezionare se stessa, riarticolarsi in mille configurazioni, se non reinventarsi per meglio commentare i nuovi tempi, mentre si schivano le chiuse e conservative cristallizzazioni folkloristiche, spesso e volentieri figlie di vuote o addirittura false convenzioni; e poi si racconta e valorizza con generosa sensibilità e autentica consapevolezza un antico e straordinario territorio montano, quello della Valle D’Aosta, fluttuante regione di confine e di minoranze culturali, sospesa tra Italia, Francia e Svizzera, necessaria, dialogica e naturale porta d’ingresso per l’Europa (non arroccata terra di montagna), diceva lo storico e resistente Federico Chabod, grazie ai suoi alti e aperti passi di origine glaciale.
Più di quaranta gli eventi in programma in quest’ultima edizione (difficile seguirli tutti, figurarsi renderne conto): dai concerti veri e propri, alle musiche pensate e suonate per accompagnare il ballo, agli stage di danze tradizionali (quelle dell’Auvergne nel Massiccio Centrale con i Flor de Zinc o del Poitou nella Francia centro occidentale, ma anche del nostro luminoso sud) o di strumento (la classe di organetto e musica d’insieme, per esempio, tenuta dal funambolico e sempre istrionico Simone Bottasso), alla presentazione di libri (quelli dell’etnomusicologo e musicista Rinaldo Doro) o ai reading e alle merende letterarie, fino all’allestimento di veri e propri spazi espositivi, come nel caso della mostra “Lo Bouque Son-E” (il legno suona), piccola esposizione, dal prospettico taglio storico, di strumenti musicali a cura di due maestri della liuteria delle alpi: Massimo Enrico (corde e flauti) e Sergio Verna (ghironde).
Poi la musica, i suoni, lo scintillio degli strumenti, ovviamente sempre in primo piano, ed ebbramente e confortevolmente fino a tarda notte.
E allora spazio a diversi modi di reinterpretare la tradizione, le sue formule, le sue strutture, le sue danze (scottish, bourée, walzer, mazurke, eccetera, eccetera), mai completamente snaturate, senza dimenticare il canto e l’autentica ed egualitaria ballata popolare, come nel caso della sontuosa anteprima del Festival, martedì 14 agosto nella suggestiva corte del Forte di Bard, affidata ad una sempre più brava, coinvolgente e autorevole Ginevra Di Marco, accompagnata dalle sue Stazioni Lunari (Francesco Magnelli, Andrea Salvadori).
Da lì, nel corso delle successive quattro giornate, è stata poi la volta (solo per citare alcuni dei protagonisti intervenuti) dell’energico “folk rock” degli Orage, la pirotecnica band dei fratelli Boniface (Remy – violino, organetto, ghironda amplificata – e Vincent, oltre al paroliere e cantautore Alberto Visconti); dell’electro-rave folk dei bretoni Plantec (la provocazione più interessante ed “estrema” dell’intero Festival, insieme al poderoso bal dub folk di Sergio Berardo e Madaski, storici leader e componenti dei Lou Dalfin e degli Africa Unite); dei sofisticati, mirabolanti e concertanti arrangiamenti per i quattro organetti degli internazionali Samurai (con Riccardo Tesi e Simone Bottasso in grande evidenza); della cura e dedizione, nel favorire le danze in pista, degli esperti francesi del Poitou Ciac Boum, guidati dal generoso violinista e chanteur Christian Pacher e sostenuti dalle multiformi evoluzioni alla fisarmonica di Julien Padovani; dell’intrigante ed elegantissimo bal folk jazz degli Zlabya, progressivo e agile ensemble di Lille, capitanato dall’organettista e compositore Raphaël Decoster; della straordinaria classe nel gestire tempi, dinamiche, ritmi, alternarsi delle intricate melodie, dei temi, delle sezioni e delle danze, in un continuo e calibratissimo stop and go, dei sopraffini belgi Hot Griselda, con sugli scudi Stijn Van Beek, eccezionale suonatore di uillean pipe (l’infernale cornamusa a mantice irlandese), e Jeroen Geerincks, fenomenale chitarrista ritmico e bodhranista; dell’assurda claustrofobica e al contempo sognante, elfica, visione fippriana (per così dire) degli itineranti e circensi Celestroi, tre musici e saltimbanchi di Saint Etienne (grancassa, organetto e clarinetto), in bilico su trampoli, e con indosso verdi semoventi carampane, maschere, zaini del primo novecento, lampade roteanti in ferro battuto, alambicchi, che li facevano assomigliare da una parte a un soldato in trincea, irrimediabilmente perso tra i venefici gas della Grande Guerra, e dall’altra a liberatorie figure della favola e della mitologia boreale; dei canti “danzerecci” e delle musiche festanti delle Valli di Lanzo con i bravi Li Barmenk oppure delle infuocate poliritmie westafricane del chansonnier Sandro Joyeux (sorta di nuovo Manu Chao franco italiano, appassionato di afrobeat).
Per arrivare infine alla spettacolare e digressiva serata conclusiva, con il ritorno degli Stygiens, blasonato super gruppo del balfolk italiano, trascinato da uno scatenato Paolo Dall’Ara alle cornamuse, affiancato dai prodigiosi fratelli Simone e Nicolò Bottasso (organetto e violino, ma non solo), e dall’implacabile chitarristica ritmico Francesco Motta. Immediatamente seguiti dal sontuoso e superlativo concerto degli inglesi Blowzabella, nel pieno del loro quarantennale, vero e proprio momento clou dell’intera rassegna, compassato ed elegante tripudio di clarinetti, sassofoni e cornamuse inglesi su un morbido ed atavico tappeto ritmico melodico, orchestrato da ghironda, basso elettrico, violino e organetto (quando il balfolk si fa concerto); e dal commovente e poetico concerto di chiusura dei Toc Toc Toc, formazione condotta da un ispiratissimo Vincent Boniface, che nel sostenere e accompagnare le evoluzioni al canto, anche validamente jazzistiche, dell’ottima e carismatica vocalist e ghirondista Anne-Lise Foy, ha dimostrato d’essere molto più che un “semplice” musicista di balfolk, e cioè un solista intrepido, nell’occasione soprattutto alla cornamusa, davvero capace di fare la differenza ad ogni sospir di nota, con spesso e volentieri vere e proprie incursioni in arditi territori improvvisativi, sul piano timbrico, melodico e armonico. Una quattro giorni davvero avvincente.
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