Emozioni sotto controllo
L'atteso live di PJ Harvey all'Alcatraz di Milano.
24 ottobre 2016 • 2 minuti di lettura
DNA Concerti Milano
Entra in scena per ultima, di nero vestita: pellicciotto piumato e microgonna in pelle. Imbraccia il sassofono come fosse uno scettro e guida così – avendo aria da “dominatrice” – una band di nove elementi, tutti uomini, fra i quali citiamo – con fierezza campanilista – due talenti nostrani temporaneamente in fuga: il Calibro 35 Enrico Gabrielli e Alessandro “Asso” Stefana, chitarrista prediletto da Capossela. L’enfasi, all’inizio in particolare, è su fiati e tamburi, tale da suscitare un effetto vagamente marziale. L’allestimento, del resto, è austero: domina il bianco e nero, le luci vengono usate con parsimonia, il fondale si sviluppa in geometrie essenziali. Né Polly Jean Harvey – 47 anni compiuti ma portati benissimo, inclusa voce cristallina che a tratti suona quasi adolescenziale – intende concedersi più di tanto: assorbe gli applausi, a volte tendenti all’ovazione, senza profferire un grazie o un saluto (unica eccezione, a un passo dall’epilogo: la didascalica presentazione degli strumentisti, tra cui i fedelissimi John Parish e Mick Harvey).
Uno show di concezione e contegno teatrali, ambientato però nel luogo sbagliato: il migliore club milanese per concerti, zeppo in ogni ordine di posti, con bagarini che ronzano nervosi all’ingresso a caccia di biglietti. Oltre metà dei brani in scaletta proviene dal recente The Hope Six Demolition Project, eseguito dunque integralmente. Un certo peso è attribuito ancora – con quattro canzoni – al precedente Let England Shake, mentre qualche briciola viene riservata a White Chalk, dopo di che – ignorando i tre album intermedi – gli scampoli rimanenti arrivano dagli esordi: il blues catacombale di "To Bring You My Love" (dal disco omonimo, rappresentato inoltre da "Down By the Water") e l’irruenza punk di "50ft Queenie". Esecuzioni impeccabili, misurati movimenti coreografici, assoluto controllo della situazione, cura del minimo dettaglio: inevitabile una sottile e tuttavia persistente sensazione di freddezza emotiva.