Don Giovanni vestito di grigio

Il capolavoro mozartiano visto alla luce delle tesi di Graham Vick 

Don Giovanni (Foto Yasuko Kageyama)
Don Giovanni (Foto Yasuko Kageyama)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Don Giovanni
27 Settembre 2019 - 06 Ottobre 2019

Col Don Giovanni  Graham Vick ha concluso all’Opera di Roma la sua trilogia Mozart-Da Ponte, che ha ricevuto giudizi piuttosto contrastanti, talvolta aprioristici ma talvolta non privi di fondamento. Il problema nasce dal fatto che ultimamente il regista inglese tende in modo sempre più marcato a dimostrare ogni volta una propria tesi preconcetta, mentre il teatro mozartiano è ambiguo e inafferrabile, afferma una cosa e insieme il suo contrario, sfugge a definizioni precise, si sottrae ad ogni incasellamento. Questa volta nel Don Giovanni  Vick di tesi ne spende più d’una e questo già va meglio, l’importante è che non ce ne sia una sola, totalizzante, che escluda ogni altra prospettiva. C’è la tesi che Donna Anna non si sia stata affatto presa da Don Giovanni con la forza, altrimenti non si sarebbe spogliata e non avrebbe appeso con cura i suoi abiti ai rami di un albero nella piazza (nella piazza?) accanto a quelli di Don Giovanni stesso. Non è un’idea nuova e tanto meno è nuova l’idea che Don Giovanni non muoia affatto ma ricompaia nell’ultima scena in mezzo agli altri personaggi, che non se ne stupiscono affatto. Semmai è diverso il modo con cui Vick giunge a questo risultato: la vendetta del cielo non arriva con la statua del Commendatore ma con la mano di Dio (quella della creazione di Adamo della Cappella Sistina) che punta l’indice contro il seduttore; ma Don Giovanni se ne ride di quel dito, lo afferra e lo strattona, col risultato che quello si rivela un Dio di cartapesta, il dito si spezza e cade miseramente a terra.

Tra queste due scene scorrono tante altre tesi. Leporello è quasi il riflesso di Don Giovanni, e anche questo non è affatto nuovo: i due hanno abiti identici (moderni ovviamente), uguale corporatura e perfino la voce è molto simile, tanto che li si distingue quasi soltanto perché uno ha la barba e l’altro no. Donna Elvira è una suora e questo è proprio nuovo e soprattutto incomprensibile, non giustificato dal fatto che nelle sue ultime battute ella dichiari di volersi ritirare in un convento. E perché mai nella scena del cimitero invece della statua del Commendatore compare il volto della sindone? Più facile provare a indovinare perché Donna Anna diventi una barbona scarmigliata e coperta di stracci, che trascina con sé due borsoni piene di cianfrusaglie: probabilmente non è a causa del dolore per la morte del padre, ma piuttosto perché senza Don Giovanni la sua vita non ha senso.

Tra queste e altre idee, che sembrano piccole provocazioni prive di senso e di logica, lo spettacolo scorre su binari piuttosto normali, sfiorando addirittura la monotonia, complici la scena unica (un alberello scheletrico e nient’altro) e le luci pressoché fisse. Ma anche questa volta Vick non ha mancato di dimostrare il suo grande mestiere nel modo con cui ha gestito i rapporti tra i personaggi con una recitazione naturale e mai caricata. E il suo senso del teatro veniva fuori nella drammaticità di certe scene, come il brutale assassinio del Commendatore. Non è un caso che il Don Giovanni di Alessio Arduini proprio in quella scena abbia dato il meglio. Altrove ha oscillato tra il bene (“Fin ch’han dal vino”, che presenta non tanto problemi d’interpretazione quanto di fiato, brillantemente superati) e il non più che corretto: in “Deh, vieni alla finestra” scarseggiavano fascino e sensualità e la scena finale non esprimeva tutta la sua drammaticità, ma d’altronde che senso avrebbe opporsi con una serie di “No” carichi di protervia, disperazione e orrore all’ingiunzione “Pentiti” proveniente da un ditone di cartapesta!?

Dentro a quel vestito grigio da travet Don Giovanni diventa un po’ grigio egli stesso, come d’altronde succede a Leporello, che era Vito Priante: non è affatto sbagliato farne l’alter ego di Don Giovanni, come gli ha chiesto Vick, ma l’uno deve incarnare la dimensione tragica, l’altro quella comica. Quest’opera vive proprio del sottile equilibrio tra tragico e comico e piallare le continue e spesso brusche alternanze (o anche sovrapposizioni: si pensi alla scena del banchetto di Don Giovanni) tra i due registri significa privare questo capolavoro del suo aspetto più geniale. Crediamo che più che ai cantanti questo vada addebitato da un lato al regista e dall’altro al direttore Jérémie Rhorer, che ha iniziato e finito bene con l’ouverture e con la scena finale, rapida e serrata, ma in mezzo ha diretto in modo piuttosto piatto, con tempi rilassati, pochi colori e soprattutto senza far dialogare la buca col palcoscenico ma accontentandosi di mandarli avanti in sincrono.

Buono nel complesso il resto del cast vocale. Ottimi in particolare il Don Ottavio di Juan Francisco Gatell (privato di una delle sue due arie, al pari di Donna Elvira, perché si è eseguita la versione di Praga) e il Masetto di Emanuele Cordaro. Maria Grazia Schiavo (Donna Anna) ha armonizzato lo stile con l’intensità espressiva, mentre Salome Jicia era una Donna Elvira fin troppo temperamentosa e vocalmente non ben controllata. Bene la Zerlina di Marianne Croux e il Commendatore di Antonio Di Matteo.

Alla fine applausi ma anche fischi per Vick e il suo team.

 

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