Don Giovanni secondo Fischer: il trionfo della musica sulla regia

Al Teatro Olimpico di Vicenza Iván Fischer firma un allestimento dell’opera mozartiana con regia ridotta all’essenziale ma orchestra e cast di gran livello

SN

02 novembre 2025 • 4 minuti di lettura

Don Giovanni ( Foto Alberto Storti)
Don Giovanni ( Foto Alberto Storti)

Teatro Olimpico, Vicenza

Don Giovanni

30/10/2025 - 02/11/2025

In una intervista di qualche mese fa alla tedesca Frankfurter Allgemeine ZeitungIván Fischer dichiarava senza mezzi termini di averne “abbastanza del teatro di regia”, affermando perentoriamente che il Regietheater è ormai intrappolato in un vicolo cieco. Secondo il direttore ungherese, “il teatro musicale diventa poco interessante quando il direttore d’orchestra e il regista lavorano separatamente”. Il suo pensiero è chiaro: la musica deve guidare la scena, non subirla, perché “i personaggi si capiscono dalla musica”. Da questa convinzione nasce la sua volontà di firmare lui stesso la messe in scena degli spettacoli che ogni anno presenta al Vicenza Opera Festival dopo il debutto al Müpa di Budapest. Convinzione di Fischer è la necessità di una riduzione all’essenziale, convinto che “senza scenografie elaborate, l’attenzione si concentri sulla recitazione, la musica e la storia”. 

Da questo punto di vista, il Teatro Olimpico, sulla carta, rappresenta un luogo perfetto per la visione di Fischer. La scenografia fissa ideata da Vincenzo Scamozzi per il teatro disegnato da Palladio, con le sue prospettive illusorie e i suoi edifici coronati da statue, è già di per sé una dichiarazione estetica di essenzialità e di armonia classica. E Don Giovanni vi si inserisce con naturalezza, quasi fosse un ritorno alle origini del mito. Non a caso, già Joseph Losey nel suo film-opera del 1979 aveva colto l’affinità tra il libertino mozartiano e l’architettura palladiana, nella quale si specchia la tensione tra eros e morte, luce e ombra, misura e dismisura. Il Don Giovanni di Fischer sembra continuare con quella lezione cinematografica, ma in una chiave necessariamente più spoglia. 

In questa nuova produzione, realizzata in collaborazione con la Iván Fischer Opera Company e la Budapest Festival Orchestra, per la prima volta gli orchestrali sono disposti nello spazio antistante la cavea (a parte qualche incursione di piccoli gruppi strumentali nella festa del finale del primo atto e nel sottofinale) lasciando Il palcoscenico interamente libero per l’azione, eccezion fatta per due pedane mobili con scalette, modanature classicheggianti e stucchi rococò, ideate dallo scenografo Andrea Tocchio. Tuttavia, la scenografia fissa scamozziana non rimane che puro fondale, fantasma silente alle spalle dei cantanti, e atto di rinuncia a impiegare uno degli elementi più suggestivi di quello spazio del tutto speciale. Invece, quelle statue che ornano le vie di Tebe, in questo Don Giovanni è come se prendessero simbolicamente vita nei corpi dell’Ensemble di Danza della Iván Fischer Opera Company: i giovani danzatori diventano elementi scenici viventi, dal segno coreografico concepito da Georg Asagaroff non sempre convincente. Le presenze della pletora di mimi, talvolta goffi, spesso invadenti, finiscono più per distrarre che per aggiungere senso all’azione: non c’è né eleganza né una vera funzione drammatica, e l’idea di animare le statue resta poco più di una superficiale suggestione. Anche il disegno registico nel suo insieme appare ridotto al minimo: pulito, sobrio, ma privo di invenzione. Fischer non cerca effetti o reinterpretazioni, ma nemmeno approfondisce davvero la psicologia dei personaggi in chiave teatrale. Lo stesso impianto luci, firmato ancora da Tocchio, non valorizza appieno le potenzialità uniche del Teatro Olimpico: il gioco tra architettura e ombra resta poco sfruttato, e la scena tende a un monocromo statico, in cui il tempo sembra sospeso più per mancanza di idee che per scelta poetica. 

Insomma, questo Don Giovanni vive quasi esclusivamente nella musica, il campo dove Fischer eccelle: il regista si piega completamente al direttore d’orchestra, e questa subordinazione produce esiti musicali di grande coerenza. La sua lettura è cupa, densa, attraversata da un senso di ineluttabilità sin dalle prime battute dell’Ouverture. Il dramma prevale sulla dimensione giocosa; l’eros è già contaminato dalla morte. La scelta di omettere il sestetto finale e di adottare dunque la versione viennese dell’opera, piuttosto controversa e discutibile oggi, accentua il carattere di condanna assoluta del protagonista: niente morale, niente redenzione, solo il vuoto lasciato dal crollo di un mito. Il Don Giovanni di Fischer è un viaggio senza ritorno, una tragedia senza catarsi. Sul piano esecutivo, la Budapest Festival Orchestra conferma la sua fama di compagine tra le più solide in Europa oggi: suono trasparente, fraseggio morbido, equilibrio perfetto tra le sezioni (una sola sbavatura è negli inciampi del mandolino nella serenata alla cameriera di Donna Elvira ma è poca cosa). 

Il cast vocale è nel complesso solido e ben assortito. André Schuen, nel suo ruolo più iconico, offre un Don Giovanni di grande fascino e inquietudine, vocalmente autorevole e scenicamente magnetico. Al suo fianco, Luca Pisaroni disegna un Leporello vivace e scherzoso ma sempre misurato, mai sopra le righe, in perfetta sintonia con la concezione musicale fischeriana. Miah Persson è una Elvira tecnicamente impeccabile ma poco furiosa, quasi dimessa nella sua propensione al perdono del dissoluto impunito, invece Maria Bengtsson, solitamente interprete di razza, non sembra disporre più dei mezzi ideali per affrontare la complessità di Donna Anna. Di ottimo livello la coppia Masetto-Zerlina, rispettivamente Daniel Noyola e Samantha Gaul (in sostituzione dell’annunciata Giulia Semenzato), che una ventata di vitalità in un contesto dominato dal lutto e dall’ombra con la loro freschezza scenica e la naturalezza del fraseggio. Convincente meno il Don Ottavio di Bernard Richter, penalizzato da un fraseggio monocorde e da un timbro poco seducente. Imponente, infine, il Commendatore di Krisztián Cser, che nella scena finale riesce a incarnare perfettamente la minaccia del giudizio e il gelo della morte. 

Pubblico delle grandi occasioni nella cavea del Teatro Olimpico riempita in ogni ordine di posto. Successo pieno e convinto.