Cosmologie sonore e territori incerti alla Biennale Musica 2025
Tra aperture coraggiose e scelte ancora in cerca di direzione, la prima edizione curata da Caterina Barbieri segna un cambio di passo, ma anche un orizzonte ancora tutto da definire
31 ottobre 2025 • 9 minuti di lettura
Varie sedi, Venezia
Biennale Musica di Venezia
11/10/2025 - 25/10/2025Musica cosmica ossia musica che non fa riferimento a uno specifico stile o una tradizione musicale quanto piuttosto al potere generativo della musica di creare nuovi mondi, oltre rigide definizioni di genere o affiliazione storica. È questo il tema della Biennale Musica 2025 appena conclusa, la prima curata da Caterina Barbieri. Un’autentica scossa tellurica alla tradizione recente di uno dei festival consacrati alla musica contemporanea più antichi d’Europa che fa deragliare dai rassicuranti binari della “Kunstmusik” ossia di quella musica che si colloca nel solco della tradizione colta occidentale — per forma, strumenti o ambizione estetica — al tempo stesso innovando il linguaggio e sperimentando nuove tecniche, sonorità e forme di espressione. In questa Biennale Musica si va oltre, si guarda alle stelle (quelle dentro, ossia quelle che vedi solo se scavi in te stesso) ma con i due piedi piantati, da un lato, nell’elettronica e, dall’altro, nel minimalismo da intendersi nella più ampia accezione stando al programma.
Coordinate culturali a maglie piuttosto larghe che danno ampi margini alla curatela di Barbieri, che si avventura in territori vasti che intendono esplorare (parole sue) “connessioni fra passato e presente accostando tradizioni musicali apparentemente distanti tra di loro per stile, epoca e area geografica, ed espressione di una comunità: ci sono incursioni nella musica antica, contemporanea, folk, drone music, techno e afrofuturismo.” Sì, perché il contemporaneo e la sua musica sono “ricchezza, diversità inclusività”. La scelta paga sul piano delle presenze, in aumento rispetto all’edizione 2024, già molto seguita, e soprattutto dell’ampliamento della base di pubblico abituale della rassegna veneziana, come già sottolineato dal collega Bettinello nelle sue prime impressioni su questa Biennale Musica.
La vaghezza del concetto di questo festival se, da un lato, rischia di confondere, dall’altro consente di costruire percorsi e di definire la propria Biennale “à la carte”, buona anche per chi, come chi scrive, tende a frequentare i sentieri più collaudati delle avanguardie “accademiche” occidentali. In questo senso, un percorso ovvio è quello del thread minimalista, anche il minimalismo ha rappresentato la negazione della musica delle avanguardie soprattutto europee del secondo dopoguerra nella loro complessità strutturale e, in parte, nel loro portato espressivo.
Interprete molto speciale del minimalismo di scuola americana anni Sessanta è Meredith Monk, Leone d’oro di questa edizione che, come quello d’argento a Chuquimamani-Condori (già Elysia Chuquimia Paula Crampton), vola negli Stati Uniti che più anti-MAGA non si potrebbe immaginare. Performer a tutto tondo, l’affollato concerto al Teatro Malibran è un ritratto preciso della Monk compositrice e della declinazione particolare del minimalismo realizzato specialmente attraverso l’uso del mezzo vocale e del corpo impiegati in una ritualità dal segno estremamente personale. Vestita di bianco, piccola e con le sue iconiche trecce, saluta il pubblico con una punta di commozione per l’omaggio a una città che le ha cambiato la vita: nel 1975 e 1976, proprio nella Biennale Teatro e Musica diretta da Luca Ronconi trova un palcoscenico internazionale per i suoi Education of the Girlchild: an opera e Quarry: an opera in three movements. A quelle esperienze, dopo l’applauditissimo programma ufficiale, rende omaggio con il primo bis, la canzone comica The Tale nella quale una donna prova a convincere la morte a desistere dal portarla via perché possiede un sacco di cose per le quali vivere: “I still have my memory / I still have my gold ring / Beautiful, I love it, I love it / I still have my allergies / I still have my philosophy”, che sembra un po’ il suo ironico autoritratto. Ciò che precede è un’antologia di suoi lavori composti lungo l’arco di mezzo secolo tratti da Songs from the Hill del 1975-1976, dalle Light Songs del 1988, dalle Volcano Songs: Duets del 1993, da ATLAS: an opera in three parts del 1991, e dalle Cellular Songs del 2018 nelle quali le strutture cellulari diventano metafora della convivenza sociale, fino a The Games del 1984 e Volcano Songs del 1993. Monk li esegue da sola o in compagnia delle sue “amazzoni” della sua particolare famiglia artistica, Katie Geissinger e Allison Sniffin, alle quali lascia spesso la scena quando non si esibisce con loro in duo o in trio. Poche note, ritmi regolari, ripetizioni cicliche sono il segno dei materiali musicali estremamente essenziali di Monk, soprattutto artista della voce che usa per emettere suoni gutturali, respiri e sintagmi che veicolano un senso nell’evocazione di sonorità ancestrali.
Se protagonista del concerto al Teatro Malibran è soprattutto la voce, un saggio della dimensione più propriamente performativa dell’artista americana lo offre l’installazione video Songs of Ascension Shrine nelle Sale d’Armi dell’Arsenale. Su tre grandi schermi si assiste alla performance concepita da Meredith Monk per la Ann Hamilton Tower all’Oliver Ranch di Geyserville in California e documentata in video nel 2023 da Dyanna Taylor. Protagonisti sono la stessa Monk con il suo ensemble vocale, il Todd Reynolds Quartet e il Pacific Mozart Ensemble. L’architettura verticale della torre con la sua doppia scala elicoidale, che nasce dall’acqua e si muove verso il cielo, diventa quasi uno spazio devozionale che richiama rituali di diverse culture e religioni nel movimento ascensionale di performer e immagini video.
Dal minimalismo al miniaturismo del quasi centenario György Kurtág nel suggestivo concerto ospitato nella Chiesa sconsacrata di San Lorenzo, già spazio di passate tragedie dell’ascolto. Epitaphs of Afterwardness accosta alle astratte miniature pianistiche del compositore ungherese l’ascetismo delle polifonie pre-rinascimentali di Guillaume de Machaut eseguite dal gruppo vocale belga Graindelavoix diretto da Björn Schmelzer e con il pianista Jan Michiels. Sì, perché nel nebuloso pa terraantheon biennalizio illuminato dalla stella di Barbieri c’è spazio anche per la musica antica.
Si tratta di un percorso in sei movimenti, costruito quasi come un rituale di risonanze e anacronismi, in cui gli intrecci polifonici della Messe de Notre Dame si specchiano nell’astrazione estrema di frammenti pianistici di Kurtág con brevi parentesi di Iannis Xenakis e di György Ligeti. Esemplare il rigore del sestetto vocale (Florencia Menconi, Andrew Hallock, Albert Riera, Andrés Miravete, Tomàs Maxé e Arnout Malfliet) che vaga nella grande navata un tempo sacra e si raccoglie in circolo attorno alla luce prodotta da tre semplici lampade, mentre il buio avvolge progressivamente lo spazio attorno. L’ensemble plasma la Messe de Nostre Dame con un controllo di intonazione e timbro esemplari, capace di restituire la purezza degli intrecci polifonici che rendono ogni sezione della Messe materia viva e continuamente scalfita e illuminata dagli intermezzi pianistici di Michiels, piccoli motti sonori dal linguaggio asciutto e allusivo, soprattutto nel segno delle miniature post-weberniane di Kurtág. Il contrasto fra le due poetiche risulta in un sorprendente equilibrio di tensione. In questo gioco di rimandi, l’irruzione improvvisa del sulfureo Escalier du diable di Ligeti rappresenta una fenditura improvvisa nell’ordine spirituale ed estatico, dove l’antico e il moderno si guardano negli occhi sull’orlo dell’abisso. Se le ascetiche prime cinque parti creano un’esperienza immersiva in cui il tempo sembra sospeso, nel finale si punta a un effetto quasi teatrale: i cantori, in movimento circolare attorno al monumentale altare al centro delle due navate simmetriche, intonano Christ lag in Todesbanden di Johann Walter mentre Michiels intreccia la Ciaccona in re minore di Bach in una insolita versione per mano sinistra di Johannes Brahms e dello stesso pianista. La sovrapposizione fra canto antico e un Bach riscritto con densità brahmsiana genera un climax cacofonico ma intensamente simbolico, un epilogo che dissolve ogni certezza tonale lasciando un’eco di misteriosa spiritualità.
Graindelavoix torna anche sotto le volte dell’antica polveriera del cinquecentesco Forte di Sant’Andrea in “Star Chamber”, parentesi escursionistico-musicale riservata a un paio di centinaia di spettatori ai quali viene offerta una specie di lezione di recupero con alcuni degli artisti già passati nella rassegna. Il breve tragitto in motonave fra Riva degli Schiavoni e il Forte è accompagnato in cabina dai versi, pardon! dalle “composizioni parlate” di Hanne Lippard di ispirazione acquatica: “…reflections in the water move, what you see is a sky moving, but not the reflection itself…”. Poi sbarco sulla “Secret Island” per la performance del sassofonista Bendik Giske sulle campate del Forte, seguita da quella della violoncellista Mabe Fratti, che ci mette anche la voce, con la chitarra di Héctor Tosta, collocati su una pedana a terra, contro lo sfondo di alberi e ruderi. E poi l’ultima tappa nel cuore del Forte per il ritorno alla suggestiva spiritualità delle polifonie rinascimentali degli otto solisti vocali di Graindelavoix.
Il concerto del Fontanamix Ensemble, il gruppo musicale più nutrito in un festival che ha privilegiato il piccolo formato (del tutto assenti le orchestre), ha messo in dialogo due mondi apparentemente distanti ma uniti dalla ricerca sull’essenza del suono: quello ascetico di Giacinto Scelsi e quello rarefatto del giovane iraniano Vahid Hosseini. Il suono di due voci femminili (Clara La Licata e Cecilia Seo) nasce nel buio del Teatro Piccolo Arsenale in Mur di Hosseini: le due voci intrecciano sillabe senza parola, sospese su un filo di microvariazioni che evocano il respiro del sacro più che un canto pieno. La voce, come in Scelsi, non comunica ma “invoca”, dissolvendosi nel puro suono. Mantram per contrabbasso (Pietro Agosti) e Pranam II per ensemble riaffermano l’universo circolare scelsiano, dove ogni nota ruota su se stessa, come un mantra interiore, piuttosto lontano dal dinamismo processuale del minimalismo che domina l’offerta di questa variegata Biennale Musica. Nel Quartetto n. 3 ancora di Scelsi, i quattro archi dell’ensemble bolognese (Valentino Corvino, Giacomo Scarponi, Corrado Carnevali e Sebastiano Severi) rendono con attenzione i cinque movimenti dai titoli evocativi di un preciso percorso spirituale – I. avec une grande tendresse, II. L’appel de l'esprit: dualisme, ambivalence, conflit, III. l'âme se réveille... , IV. ...et tombe de nouveau dans le pathos mais maintenant avec un pressentiment de la libération, e V. libération, catharsis – l’austerità e la tensione verticale del linguaggio scelsiano: un minimalismo ascetico, mai meccanico. La nuova partitura di Hosseini, Le sensibilità delle tenebre, presentato in prima assoluta, ne raccoglie in qualche modo il testimone: un flusso lento, scuro, immersivo, in cui il suono sembra espandersi più che svilupparsi. Esecuzione accurata, timbrica curata, direzione di Francesco La Licata molto misurata e discreta — ma un ascolto che, pur denso e coerente, ha offerto più contemplazione che sorpresa, fedele alla linea curatoriale che esplora la musica come principio generativo e forma di cosmogonia. Qualsiasi cosa questo significhi.
Nel buio ovattato e uterino della Sala d’Armi dell’Arsenale, Enrico Malatesta ha dato corpo e respiro a Occam Océan – Occam XXVI (2018) di Éliane Radigue, sottile e radicale esperienza d’ascolto della Biennale Musica. Nata a Parigi nel 1932, Radigue è una pioniera della musica elettronica meditativa e una voce isolata nel panorama del minimalismo sonoro. La sua serie Occam — oltre ottanta lavori concepiti per strumenti acustici e interpreti specifici — rappresenta una sorta di dialogo spirituale tra compositrice e performer, dove il suono si genera come un organismo vivente, plasmato dal respiro e dall’ascolto interiore, incentrato su durata, vibrazione e percezione. In Occam XXVI, il gesto di Malatesta diventa atto di concentrazione: due piatti soltanto, sfiorati e fatti vibrare con l’archetto, generano un universo di risonanze che si dilata e si contrae, come un respiro cosmico. Nulla accade nel senso tradizionale del termine eppure tutto cambia, in modo infinitesimale e continuo, nell’intreccio di armonici e battimenti che emergono e scompaiono nel buio. L’interprete ascolta il proprio suono nascere e morire, guidando il pubblico in uno spazio di sospensione quasi liturgico. La fisicità dell’arco sui piatti si trasforma in energia vibrante, mentre il silenzio circostante amplifica ogni microscopico evento acustico. Ancora una volta è una musica che non si impone, ma invita a percepire, a riconoscere nel minimo movimento la totalità del suono. Dopo questa immersione di suono e silenzio, Blue Veil di Lucy Railton chiude la serata con toni decisamente velleitari nelle intenzioni e poco convincenti nel risultato. Lunga cinquanta infiniti minuti, la performance ha mostrato un’idea estetica pretenziosa, ma povera di sostanza musicale. L’assenza di tensione interna e la durata eccessiva ne hanno fatto uno sterile atto performativo dalle ambizioni concettuali ma privo della sottile profondità che aveva reso, poco prima, l’universo di Radigue così intensamente vivo.
Nel complesso la Biennale Musica 2025 lascia un’impressione sospesa. Positiva l’apertura verso musiche “altre”, elettroniche, rituali o provenienti da latitudini inedite, che amplia e approfondisce la mappa del contemporaneo. Meno convincente la mancanza di un segno curatoriale più deciso, sostituito da un approccio orizzontale che elenca (come nel manifesto della rassegna) più di quanto non crei connessioni. La nomina tardiva di Caterina Barbieri alla direzione artistica giustifica un prudente “wait and see” per l’edizione appena conclusa: le basi di un nuovo corso ci sono, ma la direzione resta da tracciare. Appuntamento alla Biennale Musica 2026.