Colin Stetson e il sax di oggi

Il concerto in solo di Colin Stetson a JAZZMI racconta di un nuovo modo di pensare lo strumento e la musica che può suonare

Colin Stetson MILANO JAZZMI
Foto di Federica Cicuttini
Recensione
oltre
Triennale Teatro dell’Arte, JAZZMI
Colin Stetson
04 Novembre 2018

Un concerto splendido, quello di Colin Stetson a Milano per JAZZMI (parte del ricchissimo programma di uno dei festival oggi più vivaci sulla scena nazionale, che prosegue fino al 13 novembre: ne abbiamo parlato qui). 

Stetson è negli ultimi anni diventato musicista di culto per molti: prima la trilogia in solo di New History Warfare Vol. 1, iniziata nel 2007 e conclusa nel 2013; poi il disco in duo Never Were the Way She Was con la violinista degli Arcade Fire Sarah Neufeld (anche sua moglie), uno dedicato alla terza sinfonia di Henryk Górecki fino al recente All This I Do for Glory, hanno imposto affermato Colin Stetson anche presso un pubblico non interessato alle sperimentazioni solistiche di sax. 

Un ruolo hanno avuto – inutile negarlo – le prove di Stetson come turnista di lusso a fianco di nomi come Tom Waits (suona in Blood Money, Alice e Orphans) e – soprattutto – con il gotha della scena indie americana: Arcade Fire, TV On the Radio, Animal Collective e – soprattutto – Bon Iver (anche ospite in New History Warfare III). Se si aggiunge che Stetson ha pubblicato per l’etichetta canadese Constellation (culto degli amanti del post rock: è quella dei Godspeed You! Black Emperor), che New History Warfare III lo ha prodotto un musicista simbolo della nuova elettronica più “noise” come Ben Frost, capite bene che gli indizi si sommano e si accumulano…

Dunque, un culto “sotterraneo” – quello per Stetson – ma neanche poi troppo, e in fondo un po’ viziato dalla vena di hype che attraversa tutta la sua produzione. È veramente bravo o è un raccomandato? È un innovatore del sax o è solo un rimasticatore di avanguardie che non erano arrivate al grande pubblico?

I partecipanti al concerto milanese al Triennale Teatro dell’Arte – anche grazie al contesto, ovvero quello di un festival jazz – sembravano equamente ripartiti fra quelli che sono arrivati a Stetson dal versante indie della sua carriera, e i nerd del jazz interessati a vedere un tizio suonare un sax basso con il fiato continuo e un arsenale di tecniche più o meno convenzionali. Anche con la curiosità – ha ammesso un amico sassofonista  – di verificarne la tenuta fisica e le capacità in un contesto senza rete come quello del solo. Già affrontare un’ora di solo completo è un tour de force non da poco per un musicista. Farlo in fiato continuo e con uno strumento impegnativo come il sax basso deve esigere certo una preparazione fisica da atleta.

E diviso è uscito il pubblico, fra l’esaltazione e la perplessità. Chi viene dal mondo più canonico del jazz non è rimasto – pare – troppo felice. Già visto, già sentito, la musica non decolla, sempre uguale… 

Ma il tipo di concerto che fa oggi Stetson è interessante per più di una ragione. Rispetto ai dischi, intanto, è più legato all’aspetto dell'amplificazione: un microfono sul pomo d’adamo (dunque, quello che sentiamo uscire dalle casse non è solo lo strumento ma è il corpo di Stetson), diversi sui sax, dall’ancia alle meccaniche alla campana, tutti trattati con effetti (un po’ di distorsione, qualche riverbero – niente loop o sovraincisioni). C’è una logica di progettazione del suono a tavolino che supera l’idea di amplificare uno strumento e il suo ambiente: quello che suona Stetson è di fatto un sax elettroacustico.

Colin Stetson JAZZMI
Colin Stetson e i suoi microfoni - Foto di Federica Cicuttini

Il risultato è che quanto sentito a Milano è forse meno interessante nell’ottica del sax solo, ma è impressionante per gli esiti sonori. Quando dopo i primi dieci minuti al contralto Stetson imbraccia il sax basso e spara la prima nota, pettina il teatro fino all’ultima fila. È una musica che punta molto sull’alto volume, sulla preponderanza di frequenze basse amplificate e gestite con un’estetica che è da elettronica o da post-rock e molto poco da jazz (ammesso che fare questo tipo di distinzioni abbia ancora un senso – ma ci siamo capiti).

I brani procedono pure su quella linea: incastri tra “cassa” e “rullante” (tutti ottenuto con la microfonazione dello strumento) che rimandano direttamente a stilemi dell’elettronica, ripetizioni di gusto minimalista – ma di un minimalismo massimalista, che punta sulla massa sonora, sulla violenza del volume.

Per quanto al centro della scena ci sia il sax, in realtà del sax – della sua storia, del suo suono – rimane all’apparenza molto poco. Se si dovessero fare delle cover di quello che Stetson ha suonato a Milano, l’organico più adatto comprenderebbe una batteria in stile IDM, dei feedback di chitarra elettrica, un contrabbasso suonato con l’archetto e distorto (l’ultimo pezzo presentato, una novità, suonava esattamente così: una cavalcata post rock che poteva essere tratta da uno dei primi album dei Sigur Rós più cattivi, o dei Godspeed You! Black Emperor). Più Ben Frost – appunto – che non Mats Gustafsson.

In sostanza, esaltante – e affascinante, perché il solismo di Stetson sembra raccontare un presente dei “vecchi” strumenti che cercano di immaginare il loro futuro, ma che ancora non lo hanno capito del tutto. Per ora, sembrano imitare altre musiche. Ma domani?

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