Bufere sindacali sul Simon ben organizzato

Minacciava di saltare lo spettacolo inaugurale del "Verdi" di Trieste di ieri sera a causa dello sciopero indetto dalle R.S.U. del Teatro contro la gestione di bilancio del sovrintendente...

Recensione
classica
Teatro Lirico Giuseppe Verdi Trieste
Giuseppe Verdi
14 Ottobre 2003
Minacciava di saltare lo spettacolo inaugurale del "Verdi" di Trieste di ieri sera a causa dello sciopero indetto dalle R.S.U. del Teatro contro la gestione di bilancio del sovrintendente Cambreleng, dichiaratosi disponibile a rassegnare le dimissioni. Una lunga riunione del consiglio di amministrazione, protrattasi sino a qualche ora prima delle fatidiche 20.30, ha dato un colpo alla botte e uno al cerchio, salvando la regolare andata in scena del Boccanegra. Un avvenimento mai accaduto prima nella quieta Trieste, ove lo spagnolo Cambreleng proseguirà per ora il suo mandato, ma con la valigia in mano. La forte bora che soffiava in città e le notizie trafelate che si erano diffuse intorno al giallo sul possibile blocco dell'attività non hanno tuttavia scoraggiato gli spettatori giunti puntuali e in massa per il tradizionale appuntamento su cui gravava ancora il pericolo di annullamento. È stato un grande ritorno il tortuoso Simon Boccanegra al "Verdi", pur tenendo conto delle formidabili difficoltà esecutive che esso pone. L'appetito del pubblico giuliano, ben testimoniato da un tutto esaurito, si attendeva forse una realizzazione consona alla tradizione. Ma è stato spiazzato dalle prodezze registiche e per nulla ovvie di Franco Ripa di Meana, dalle scenografie intelligenti dell'inglese Gideon Davey e dai costumi di pelle nera ideati da Silvia Aymonino. Un team di giovani che lavora insieme da alcuni anni, dedito ad organizzare millimetricamente ciascun spettacolo al meglio della creatività. Più che a dissimulare il groviglio che sottende la complessa vicenda del Boccanegra, Ripa di Meana ne ha chiarito il senso, facendo muovere misuratamente Paolo, Pietro, Fiesco e Simon nel breve e decisivo prologo, ambientato in una plancia di nave rivestita di metallo sbrecciato, grigio-nerastro e semiarrugginito, munita di due scalette da cui scendono e salgono i protagonisti. Entro questo grembo marino, scuro e funereo, carico di tregenda e in cui il tempo sembra sfaldarsi, Ripa di Meana fa emergere costoro, uno dopo l'altro, nei punti più diversi della scena, quasi sciolti da coordinate prestabilite. Un mondo pessimista e interamente maschile vi è rappresentato, con costumi di pelle nera e lucide plastiche, che lega gli uni agli altri entro i fili del potere. Rivoli d'acqua (vera) scendono improvvisamente dall'alto sulla sinistra della scena e richiamano il mare, quel mare che Boccanegra canterà nell'ultimo atto. Lentamente la ghigliottina posta perpendicolarmente sopra alla plancia scura scende e si fà monumento sepolcrale per mostrare il cadavere di Maria, cui si lega secondariamente la vicenda dei quattro interpreti maschili. Davey opta per una lettura integrale della drammaturgia verdiana secondo una disposizione ideale di atto unico, creando un convincente impianto spazio-temporale di continuità narrativa. Il funzionale impianto scenico, lo spaesamento fin-de-siècle dei protagonisti e delle masse dei popolani in tute operaie di stampo sovietico, accoglie di volta in volta piccoli interni geometrizzanti, pertugi che si aprono e su cui si rifrangono colpi di luci azzeccate, carabottini quasi alla Carlo Scarpa negli episodi di più raccolta intimità, come nel secondo atto dove sulla sinistra un piccolo alveo bianco semicircolare, essenziale e munito di un'unica seggiola metallica, rappresenta la stanza del doge. Ci piacerebbe ritrovare nuovamente a Trieste il quartetto formato dalla Aymonino, Ripa di Meana, Davey e Di Iorio, bravissimo a creare squarci luminosi sulle tinte di Verdi, un pittorico psicologismo di contrasti, di situazioni storiche, di sentimenti, di visioni del mondo. Ridurre la drammaturgia musicale ad un esercizio di contrapposizioni per lasciar trasparente il vero senso dell'azione è quanto hanno saputo organizzare al meglio i quattro artefici dell'impatto visivo, moderno e discretissimo, fischiato purtroppo da un pubblico che deve ancora essere dirozzato e che non ha inteso gli sforzi compiuti per sciogliere i nodi di un testo ellittico in suggestioni arcane, gravi, cimiteriali e marine. Dirigeva Oleg Caetani, il figlio di Igor Markevitch, che ha liberato con grande classe dalla partitura verdiana momenti altissimi di estroversione melodrammatica e ha contribuito a distendere il cantabile e le zone intimistiche con grande finezza e seduzione sonora, svelando qualità timbriche quasi espressionistiche. Sotto la sua guida l'orchestra del "Verdi" è parsa proprio eccellente, come del resto il coro compatto, istruito da Emanuela Di Pietro. La compagnia di canto, più che dignitosa, ha schierato forze giovani di tutto rispetto e dotate di belle voci, da Albero Gazale nel ruolo del titolo al basso armeno Kotchinian, da Carlo Ventre (Adorno) a Serena Farnocchia che emerge nelle zone liriche attribuendo soluzioni emozionate ma mai forzate. Bravi pure Damiano Locatelli (Paolo), Giuliano Pelizon (Albiani) e Manrico Signorini (Pietro), quest'ultimi coristi del Teatro stesso. Pubblico prodigo di solidali, calorosi consensi per il direttore e l'ottetto vocale come per il coro e per l'orchestra; qualche dissenso e fischi immotivati per le scene, la regia e i costumi per la verità perfetti.

Note: Nuovo allestimento del Teatro Lirico "G. Verdi" di Triestein coproduzione con Theater Graz

Interpreti: Alberto Gazale/Carlos Almaguer, Serena Farnocchia, Arutjun Kotchinian, Carlo Ventre/Giuseppe Gipali, Damiano Locatelli/Giuliano Pelizon, Manrico Signorini

Regia: Franco Ripa di Meana

Scene: Gideon Davey

Costumi: Silvia Aymonino

Orchestra: Orchestra del Teatro Lirico "G. Verdi" di Trieste

Direttore: Oleg Caetani

Coro: Coro del Teatro Lirico "G. Verdi" di Trieste

Maestro Coro: Emanuela Di Pietro

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