Bolena, drammatica e completa

All’Opera di Roma una bella edizione dell’Anna Bolena, che sprigiona una grande e continua tensione drammatica. E finalmente completa

Anna Bolena (Foto Yasuko Kageyama)
Anna Bolena (Foto Yasuko Kageyama)
Recensione
classica
Roma, Teatro dell’Opera
Anna Bolena
20 Febbraio 2019 - 01 Marzo 2019

Con l’Anna Bolena il trentatreenne Donizetti, affrancandosi definitivamente dall’influsso di Rossini, raggiunse la sua maturità artistica e firmò il suo primo capolavoro. S’incontrano ancora alcuni brevi incisi che, se li si isolasse dal contesto, potrebbero benissimo trovare posto in un’opera di Rossini, ma qui ricevono una luce nel nuovo contesto, cupo, violento, ad alta temperatura drammatica. Un’eredità di Rossini più importante è la struttura fatta di pochi “numeri”, ma ampi, articolati, complessi: in quasi tre ore e mezzo di musica sono soltanto undici, tra cui solo due sono una cavatina e un’aria di taglio tradizionale, mentre negli altri le arie, i duetti, i terzetti, i concertati e i cori si fondono in un solo organismo, dando vita a scene in cui la continuità musicale non viene spezzata e la tensione drammatica si accumula. Riccardo Frizza giustamente valorizza questa nuova urgenza drammatica, che conosce pochi momenti di flessione, per esempio in un paio di cori, che sono dei brevi intermezzi, probabilmente calcolati proprio per allentare la tensione prima di immergere di nuovo l’ascoltatore nei tormenti delle due protagoniste e nell’implacabile arroganza e insolenza del re e nei loro contrasti al calor bianco. La direzione è indubbiamente la prima responsabile (in senso positivo) del potente, e in parte inatteso, impatto drammatico di quest’edizione dell’Anna Bolena. Ha anche avuto il merito di eseguirla in forma assolutamente completa, perché, nonostante la durata wagneriana dei suoi due atti, quest’opera non si dilunga mai inutilmente, anzi è perfino concisa e la sua lunghezza deriva dalla ricchezza di situazioni drammatiche del bel libretto di Felice Romani. FInora invece si abbondava nei tagli, ma è proprio così che, alterandone la continua tensione drammatica, la si faceva apparire lunga.

Nella stessa direzione del direttore andavano le interpretazioni dei protagonisti. Anna Bolena era Maria Agresta, che conserva la luminosità del registro centrale da soprano lirico dei tempi non lontani in cui il suo cavallo di battaglia era Mimì, ma ora è diventata un vero soprano d’agilità e di forza e affronta con sicurezza intricati virtuosismi e temibili acuti (più debole invece il registro grave). Alla fine di questa parte lunga e faticosissima, arriva forse un po’ stanca all’ultima scena, “Al dolce guidami castel natio”, o più probabilmente è proprio questa pagina, che un tempo era la più celebre dell’opera, a convincere meno l’ascoltatore odierno, che nella pazzia dell’infelice regina avverte qualcosa di manierato. La sua rivale, Giovanna Seymour, era finalmente affidata a un soprano, come Donizetti voleva. Carmela Remigio ha sorpreso un’altra volta, tanto che non si può più parlare di sorpresa, perché ormai sappiamo che ogni volta si supererà e, più la sua parte sarà difficile, più dimostrerà capacità vocali inaspettate e tirerà fuori le unghie di una personalità ferina. In lei canto, dizione, recitazione fanno un tutt’uno e rendono la Seymour un personaggio non meno drammatico della Bolena. Quando queste due interpreti si trovano insieme fanno faville: il loro duetto “Sul suo capo aggravi un dio” nel secondo atto non diminuisce la sua arroventata temperatura drammatica per un solo istante della sua lunga durata. E che dire dei loro recitativi? Non sono certamente dei puri momenti di collegamenti e diventano la vera struttura portante dell’impianto drammatico dell’opera. Le due cantanti li interpretano con tale drammaticità da perdere di vista talvolta la precisione dell’intonazione, ma non è un gran male, perché la funzione dei recitativi è più drammatica che puramente musicale.

Ci voleva Alex Esposito per affrontare due donne di tale temperamento senza esserne soverchiato. Il suo Enrico VIII è un personaggio temibile: ogni sua parola trasuda arroganza, soperchieria, machiavellismo da quattro soldi. Giustamente porta sulla testa una corona di latta, perché non ha alcuna regalità ma è un uomo spregevole, meschino, anche volgare. Percy è in buona parte un tributo alla stupefacente vocalità di Giovan Battista Rubini e di conseguenza la sua cavatina con relativa cabaletta è uno dei pochi momenti dell’opera in cui la tensione drammatica subisce un calo: scomparso Rubini, questa parte è diventata impossibile, ma René Barbera, nonostante qualcuno dei tanti acuti e sovracuti fosse un po’ stiracchiato, ne è uscito sostanzialmente indenne e ha meritato gli applausi generosi del pubblico. Quinto protagonista è il paggio Smeton, cui è stata giustamente lasciata la sua aria, che generalmente viene tagliata e che è stata cantata molto bene da Martina Belli, che ha anche il fisico alto e slanciato adatto a questo ruolo en travesti.

Una volta tanto, non c’è molto da dire della regia. Andrea De Rosa non va molto al di là della sottolineatura dell’atmosfera cupa di questa storia, collocandola in un palcoscenico quasi totalmente vuoto, delimitato da tre pareti nere, su cui incombono a mezz’aria altre tre pareti fatte di sbarre. In gran parte del primo atto Bolena, ancora formalmente libera, vive chiusa in un letto a baldacchino circondato da una grata, mentre nel secondo è imprigionata in una piccola cella a qualche metro d’altezza. Inevitabilmente anche l’azione resta ingabbiata. Luigi Ferrigno firmava le scene e Ursula Patzak gli eclettici costumi, che spaziavano attraverso vari secoli, dall’epoca di Enrico VIII fino al Settecento.

Caloroso successo per gli artefici della parte musicale, ma qualche fischio per quelli della parte scenica.         

 

 

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