2000 concerti di Novara Jazz

Ventesima edizione per Novara Jazz, fra groove e ricerca

Novara Jazz 2023 Flat Earth Society Orchestra (Foto di Emanuele Meschini)
Flat Earth Society Orchestra (Foto di Emanuele Meschini)
Recensione
jazz
Novara
Novara Jazz 2023
09 Giugno 2023 - 11 Giugno 2023

Ventesima edizione per Novara Jazz, con un programma come di consueto ricco e sempre attento a quanto di attuale e urgente pulsa nel mondo del jazz e nei suoi dintorni, equilibrato nel calibrare bene ricerca e accessibilità, convivialità e sperimentazione, con una formula sempre più collaudata che pone senz’altro il festival ai vertici in Italia per chi abbia le orecchie assetate di suoni attuali.

– Leggi anche: Novara Jazz, la ricerca e la festa

Una frase di Picasso nella corte del Broletto casualmente restituisce il senso: «L’arte spazza la nostra anima dalla polvere della quotidianità». E allora ecco come abbiamo spolverato e abbiamo dato aria alle stanza grazie a un programma eclettico e torrenziale.

Abbiamo seguito l’ultimo weekend della rassegna, che ci ha offerto una vera e propria maratona, cominciando dallo spazio del Broletto, con Flat Earth Society Orchestra, collettivo belga con nutrita sezione fiati, pianoforte, contrabbasso, batteria, chitarra elettrica e vibrafono. Da qualche parte tra Mr.Bungle, Lounge Lizards, una brass band di New Orleans, fragranze exotica e uno swing sghembo e beffardo che riporta dritto dritto alla scuola olandese.

«Improvvisare  d’ora in poi sarà assolutamente proibito, così come fare assoli. Lo swing non potrà superare il 15%. La melodia verrà eseguita in maniera semplice, chiara, diretta; strumenti estranei alla nostra cultura non saranno più ammessi. Il contrabbasso deve essere suonato solo con l’archetto. La melodia sarà ridotta alla sua essenza. Il tempo verrà mantenuto deciso, si dovrà suonare solo ed esclusivamente in maggiore».

Così il clarinettista e leader Peter Vermeersch a dare indicazioni in un lungo brano dal sapore teatrale che racchiude un po’ tutti gli elementi della formula distillata dalla band: un live lieve, calibrato, denso di un humour leggero e in qualche modo filosofico.

A seguire TUN (Torino Unlimited Noise), progetto sostenuto dal Centro Produzione Musica WeStart 2023, trio con Fabio Giachino al synth, Mattia Barbieri a batteria e drum pads (entrambi visti da poco a Correggio Jazz nel tributo a Zappa diretto da Furio Di Castri) e Gianni Denitto al sassofono: un incontro tra jazz e techno che non lascia ricordi particolari.

Il giorno dopo si comincia nel cortile di Palazzo Natta con New Future City Radio, nuovo progetto nato dall’incontro tra Rob Mazurek e Damon Locks (qualcuno se lo ricorda con The Eternals, più di recente ha fondato Black Monument Ensemble), il cui esordio uscirà a luglio per International Anthem.

Rob Mazurek (Foto di Emanuele Meschini)
Rob Mazurek (Foto di Emanuele Meschini)

Traendo ispirazione dalle pirate-radio, dai boombox che si sentono nel South Side di Chicago, dal post-punk e dalle avanguardie americane, questa nuova radio urbana del futuro, per l’occasione arricchita dalla presenza delle percussioni e dall’elettronica di Mauricio Takara (batterista per São Paulo Underground), nel suo mostrarsi come cantiere aperto e come macchina sonora in movimento e priva di una direzione univoca affascina e convince.

Clima torrido, continue interferenze elettroniche, una ridda di voci (quella ieratica di Locks a declamare, altre rubate da chissà dove): una specie di rituale elettro-arcano da un futuro primitivo in una foresta punteggiata da relitti di androidi. Un blob scintillante dove convergono pigre movenze dub, tropicalismo, afro-futurismo e un sottile veleno che fuoriesce in gocce da un flacone di psichedelia space.

Damon Locks declama come mandando segnali dallo spazio, i vocalizzi ancestrali di Mazurek, tutto un brulicare di percussioni, suoni, rumori. Un set conciso, riuscito nel suo essere (volutamente?) un po’ sfocato, come un sogno dopo un trip.

Si prosegue al pomeriggio con un doppio set a Palazzo Bellini. Prima Nicole Mitchell, in un solo per flauto ed elettronica, i cui glitch rispondo magnificamente alle allusioni avant-tutto dello strumento, portandoci dentro un labirinto da cui non si uscirebbe mai. Brevi sketch per flauto e voce: “I will love again”, immaginiamo una dedica al marito scomparso.

Nicole Mitchell (Foto di Emanuele Meschini)
Nicole Mitchell (Foto di Emanuele Meschini)

A seguire un buonissimo set della pianista Angelica Sanchez, che poi la sera, come Mitchell, si esibirà con Exploding Star Orchestra. Un blues ripido e corrusco, un pianismo che fa pensare a un Taylor un poco più pacificato, fino a che con un battente non esplora i segreti delle corde. Musica densa e scura, senza perdere però sostanza melodica.

Corrado Beldì, condirettore del festival con Riccardo Cigolotti, ricorda in chiusura come la Sanchez sia la duemillesima musicista ospitata dal festival: il suo set ha centrato il bersaglio.

Palma del live migliore della tre giorni del cronista va però al set al Castello Sforzesco del trio di Gabriele Mitelli (Three Tsuru Origami, con John Edwards al contrabbasso e Mark Sanders alla batteria, protagonisti di un disco su We Insist! Records) e l’ospite speciale Joe McPhee al sax tenore.

Gabriele Mitelli (Foto di Emanuele Meschini)
Gabriele Mitelli (Foto di Emanuele Meschini)

Improvvisazione lirica e tesa, lampi di swing destrutturato e lunare in una nebbia galattica fitta di segnali luminosi e buchi neri. Un live denso e ispiratissimo, nel segno del free classico ma trafitto dalle puntuali e affilate interferenze dell’elettronica spuria di Mitelli che si sposa perfettamente con la sezione ritmica letteralmente volante e la voce di McPhee languida e possente.

Ultimo concerto del sabato sera al Broletto quello di Exploding Star Orchestra, reduci da Lighting Dreamers, uscito di recente su International Anthem. Riccardo Cigolotti riporta le parole del leader Rob Mazurek a proposito del lavoro:

«Si tratta della rievocazione e rielaborazione della Black River Suite. Ho vissuto tre anni a Manaus, in Amazzonia. Lì si prende una barca fino alla linea dove confluiscono Rio Branco e Rio Negro e in quel punto ci si tuffa, a dimostrazione dal fatto che veniamo tutti dallo stesso posto. Non c’è spiegazione migliore per questa musica».

Doppia batteria (Mike Patrick Avery e Chad Taylor), contrabbasso (Ingebrigt Håker Flaten, visto proprio al Broletto con The Young Mothers qualche edizione fa), Angelica Sanchez al piano, Pasquale Mirra al vibrafono (protagonista di un solo che non abbiamo potuto vedere il venerdì pomeriggio), Mauricio Takara alle percussioni, Nicole Mitchell al flauto, Damon Locks alla voce.

Exploding Star Orchestra (Foto di Emanuele Meschini)
Exploding Star Orchestra (Foto di Emanuele Meschini)

L’inizio è in medias res: un recitato di Locks, poi da una nuvola free fa capolino un ostinato di basso minimo e tribale su cui Mirra fiorisce fantasie. Una fitta giungla percussiva tra i cui rami spuntano lampi solisti, galleggiano  volte tronchi, temi. Misurati gli interventi del leader. “Ancient and new” dice Locks a un certo punto e questo semplice statement ben definisce la musica della ESO.

Takara armeggia anche all’elettronica, la massa acustica si increspa, si addensa fino ad agglutinarsi in forme di tempesta. Un’invocazione di Nicole Mitchell a Jamie Branch, poi dopo una teoria di unisono luminosi parte un carnevale percussivo come a un febbraio a Rio De Janeiro.

La formula è efficace per quanto talvolta un poco abusata: le forme si aprono a partire da elementi minimi, si lavora molto nel mood e ci si affida alla bravura dei solisti (Mirra come sempre sugli scudi). Il live comunque regala momenti affascinanti, sa offrire squarci di bellezza e dosa in modo magistrale atmosfere e dinamiche, convincendo a pieno la folta platea, nonostante un’acustica un po’ penalizzante.

La domenica si riparte da Veryan Weston all’organo della chiesa di San Giovanni Decollato; una sua vecchia composizione, Tassellation, adattata allo strumento, i cui differenti registri vengono esplorati con sapienza per restituirci una musica mobile e inquieta, mai prevedibile: un brodo di vita primordiale dove affiorano strane forme di vita che non sappiamo dire. Musica delle sfere; qualcuno dice Terry Riley, cogliendone il lato celeste.

La maratona prosegue con un solo per contrabbasso del danese Adam Pultz-Melbye alla Galleria Giannoni, di fianco al quadro divisionista “Sinfonia del mare” di Filiberto Menozzi. Una lunga escursione dronica, una burrasca acustica che è parsa dialogare in tempo reale con la tela.

Altro highlight del festival il solo di Joe McPhee alla Chiesa del Carmine. Classe 1939, l’autore dello storico Nation Time, nativo di Miami, è uno degli ultimi esponenti viventi dell’avanguardia post Coltrane. Ha raccolto testimonianza e urlo della comunità afro-americana, cominciando a registrare in solo già dai Settanta. Il suo solo al sax tenore è una preghiera dolente, un canto d’amore grondante blues, quasi un gospel. Meno veemente di quanto ci saremmo aspettati, lirico e potente: un monumento vivente.

Joe McPhee (Foto di Emanuele Meschini)
Joe McPhee (Foto di Emanuele Meschini)

Tocca poi al trio di Mitelli-Avery-Flaten al Palazzo della Soprintendenza. Per il polistrumentista bresciano (tromba, sax, voce, elettronica) Mazurek è un modello fermo e talvolta un po’ ingombrante, ma convince il lavoro con l’elettronica oltre che l’attitudine spericolata e aperta, che si riflette in una musica libera che attinge da esperienze del passato ma cerca e talvolta trova una sua voce comunque personale.

Più space nell’esibizione con Edwards, Sander e McPhee, più ctonia e astratta in questo frangente. Alla Canonica del Duomo è la volta di Chicago/São Paulo Underground, la fusione delle due esperienze di Mazurek tra Windy City e metropoli brasiliana per un trio inedito. Taylor siede alla batteria, Takara alle percussioni e all’elettronica, il leader come di consueto suona tromba, cornetta, percussioni e si abbandona a rapidi lampi vocali invocando qualche divinità.

L’enfasi è proprio sull’aspetto ritmico, colto nel suo lato più selvatico e incalzante. Sembra di stare in una giungla del XXX secolo, con le interferenze sottili di Takara a stranire positivamente l’atmosfera. Il live, con un’ottima risposta di pubblico, è divertente, pulsa a pieno regime (Taylor è un eccellente motore), difetta però talvolta di dinamica.

Un filo nel nome del groove lo lega al set finale del festival, quello del sestetto sudafricano Bantu Continua Uhuru Consciousness che pone il suggello a questa ventesima edizione di Novara Jazz con un tripudio di percussioni e di voci.

Un plauso agli organizzatori e alla direzione artistica per aver pensato un programma così vasto e di ottima fattura, capace di portare suoni non ordinari nei luoghi più belli del capoluogo piemontese.

Aspettiamo già la prossima primavera, per l’edizione numero ventuno.

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