La resistenza di Bernard Foccroulle

Dopo 12 anni Bernard Foccroulle lascia la direzione del Festival di Aix-en-Provence, e non risparmia critiche all'opera di oggi (soprattutto in Italia)

Bernard Foccroulle, aix-en-provence
Foto di Pascal Victor
Articolo
classica

Tre anni fa Bernard Foccroulle ha deciso che l’edizione 2018 del Festival d’Art Lyrique di Aix-en-Provence sarà l’ultima da direttore generale, concludendo la sua lunga parabola da manager della cultura iniziata nel 1992 al Théâtre de la Monnaie. A 65 anni, il belga torna organista a tempo pieno, ma non è certo di quelli che amano isolarsi nell’alto della cantoria di una chiesa.

Nella sua carriera di musicista, che decolla negli anni 1970, l’interesse per i grandi classici della letteratura organistica e soprattutto per i monumenti Bach e Buxtehude è pari a quello per le esperienze musicali più avanzate di Philippe Boesmans, Pascal Dusapin, Jonathan Harvey e Brian Ferneyhough, che scrivono pezzi per lui. E da organista ama confrontarsi anche con altre discipline: la coreografia con progetti in collaborazione con Jan Fabre e con Salvador Sanchis, e la videoarte con Lynette Wallworth. Se l’organo è la più compiuta espressione del solista in musica, è in compagnia del Ricercar Consort e quindi del cornettista Jean Tubéry che Foccroulle esplora la musica barocca soprattutto di area tedesca, e con Georges-Elie Octors, Marc Hérouet e Georges Deppe fonda il Quatuor Daleth, un insolito quartetto di sintetizzatori.

Per chi frequenta abitualmente il Festival di Aix-en-Provence, non è insolito vedere agli spettacoli del festival quel signore alto con un casco di riccioli bianchi intrattenersi affabilmente con gli spettatori quando non partecipa in incontri e discussioni, che testimoniano di una militanza di lunga data a sostegno del ruolo anche sociale della musica e della democratizzazione dell’accesso alla cultura. Militanza che ha radici antiche: nel 1986 è direttore delle Jeunesse musicales de Belgique, negli anni 1990 fonda l’Associazione Culture et Démocratie, quindi diventa presidente di Opera Europa e nel 2009 fonda l'ENOA, il network europeo delle accademie d’opera, per aprire opportunità ai giovani che decidono di dedicarsi alla professione di musicista.

Difficile credere che Foccroulle, dopo l’annunciato ritiro dalla venticinquennale carriera di impresario musicale, abbandoni la trincea dell’impegno: lui stesso ne parla in questa intervista concessa in esclusiva per i lettori del gdm.

Bernard Foccroulle lascia dopo dodici anni la guida del Festival di Aix-en-Provence: il risultato di cui lei è più fiero?

«È sempre difficile scegliere un solo risultato dopo un periodo così lungo e ricco di momenti felici per me. Se devo davvero sceglierne uno, direi senza dubbio la creazione di Written on Skin di George Benjamin perché è stata, allo stesso tempo, una creazione e un lavoro che abbiamo vissuto come un momento storico. Durante la mia direzione mi sono particolarmente impegnato a commissionare nuove opere: oltre a quella di Benjamin e senza contare le molte altre non destinate alla scena, ne abbiamo commissionate circa dodici a compositori come Pascal Dusapin, Oscar Strasnoy, Oscar Bianchi, Vasco Mendonça, Jonathan Dove, Philippe Boesmans e l’estate prossima chiudiamo con Ondrej Adámek e la sua opera Seven Stones e Moneim Adwan e la sua opera partecipativa Orfeo & Majnun. Tornando a Written on Skin, è un lavoro al quale mi sono dedicato personalmente per circa vent’anni con George Benjamin attraverso un lungo percorso che non si è esaurito con la creazione a Aix-en-Provence nel 2012. In seguito, ci sono state tournée del nostro e di altri allestimenti venuti dopo. È stato davvero un percorso formidabile. È questo genere di esperienze ciò che dà un senso al lavoro che facciamo».

E il risultato di cui va meno fiero?

«Difficile dire… Dal mio punto di vista l’ultima produzione del Ratto dal Serraglio firmata da Martin Kušej [vista anche al Teatro Comunale di Bologna nella scorsa stagione, NdR], principalmente perché ha dato un’immagine dell’Oriente molto caricaturale, barbarica e sanguinaria che non corrisponde né all’immagine che Mozart voleva darne né quella che gli artisti dovrebbero trasmettere oggi del mondo orientale. È uno spettacolo che ho vissuto molto male. È soprattutto verso la fine della produzione che le cose sono diventate chiare: non avevo problemi a priori sull’idea di ambientare la vicenda in un contesto di terrorismo – dopotutto è un aspetto del nostro tempo – ma piuttosto che fossero terroristi perché musulmani e che fuori dall’Occidente non c’è salvezza. È esattamente il messaggio opposto di quello per il quale ho sempre lavorato».

Ratto del Serraglio Kusej, Aix-en-Provence
Un’immagine del Ratto dal Serraglio di Martin Kušej (Festival di Aix-en-Provence 2015)

Questo per le cose fatte. E che dire dei sogni o, se preferisce, dei progetti non realizzati?

«I sogni sono importanti: sono il motore dell’immaginazione! Oggi tendo piuttosto a vedere i molti sogni che siamo riusciti a realizzare. Che dire degli altri? [Foccroulle ci pensa per un po’]. A un certo punto avrei voluto realizzare Hyppolite et Aricie di Rameau. Era il 2010. Non abbiamo potuto farlo perché non siamo riusciti a mettere insieme i mezzi finanziari necessari. Se lo si vuol fare ad alto livello, Rameau è molto costoso da mettere in scena per i cantanti, il coro, l’orchestra, i solisti di danza. Farlo bene è diventato ormai quasi impossibile. Altrimenti, molti dei sogni, come dicevo, sono diventati realtà. Uno di questi è l’Orchestre des Jeunes de la Méditerranée: nell’arco di otto anni abbiamo fatto dei progressi importanti, abbiamo diversificato il repertorio, sviluppato pratiche diverse (ad esempio, l’improvvisazione). Per me questa è stata la realizzazione di un sogno molto importante».

L’Orchestre des Jeunes de la Méditerranée fa parte dei progetti che vivranno anche dopo la fine della sua gestione?

«Credo che l’Orchestra continuerà, si svilupperà, diversificherà la sua attività artistica e soprattutto svolgerà un ruolo sempre più importante sul piano artistico, sul piano culturale e sul piano degli scambi con le diverse regioni del Mediterraneo e oltre».

Lei ha insistito in più occasioni, e particolarmente dopo il 2013, sulle radici mediterranee del Festival di Aix-en-Provence, mentre quelle storiche mozartiane delle origini del festival sono state messe un po’ in secondo piano. È una descrizione della sua linea artistica degli ultimi anni che condivide?

«Non vedo le cose in questo modo. A mio avvisto Mozart è sempre rimasto al centro della programmazione artistica del festival durante la mia direzione. Non c’è stata alcuna edizione senza Mozart e abbiamo avuto molti progetti mozartiani molto forti, come quelli di Simon McBurney, William Kentridge, Richard Brunel, Dmitrij Černjakov per citarne solo alcuni. Per me Mozart non ha mai cessato d’essere fonte di ispirazione e le dirò che ancora oggi, malgrado l’eredità del XX secolo che è cupa, il secolo dei lumi non si può dimenticare. Non si può cancellare con un tratto di penna la luce. Credo occorra inventare continuamente un legame con quell’epoca e in questa prospettiva Mozart è un anello fondamentale. Francamente, per me Mozart è rimasto molto, molto, molto presente. È comunque vero che la dimensione mediterranea, che non era presente nei programmi del festival, l’abbiamo sviluppata molto negli ultimi dieci anni, tappa dopo tappa, ma assolutamente non a scapito della relazione con l’Europa del Nord o l’America. Da un lato, perché esiste una vicinanza geografica e perché le popolazioni di Aix-en-Provence, di Marsiglia, di tutta la Provenza sono diventate sempre più mediterranee e diversificate, socialmente, culturalmente, linguisticamente; dall’altro lato, semplicemente perché le culture musicali del Mediterraneo sono di un livello assolutamente formidabile, non sufficientemente riconosciuto né valorizzato. Su questo abbiamo fatto un grande lavoro e credo che oggi il Festival di Aix-en-Provence si trovi in una posizione avvantaggiata che dovrebbe consentirgli nei prossimi anni di diventare, sul piano culturale, una sorta di interfaccia o di luogo privilegiato di incontri fra lo spazio mediterraneo e lo spazio europeo».

Continuerà anche in futuro questo sguardo sulle civiltà del Mediterraneo?

«Non sta a me parlare dei progetti del mio successore Pierre Audi, ma posso dire che vedo le cose svilupparsi e continuare in quella direzione».

Un suo tratto caratteristico è la franchezza. Ripescando fra sue affermazioni passate, ne ho trovata una particolarmente dura nei confronti del Festival di Salisburgo: “Dobbiamo dare un significato all’opera… Non voglio diventare una Salisburgo francese”. La pensa ancora così o anche a Salisburgo qualcosa è cambiato?

«Con Markus Hinterhäuser sono cambiate molte cose. Markus ha rimesso al centro la progettazione artistica, come non è sempre stato nella storia di quel festival. Sono stato spettatore del Festival di Salisburgo in numerose stagioni e ho sempre osservato che il pubblico lì è la caricatura del pubblico dell’opera, cioè ci sono quelli che vanno per esibirsi, quelli che vanno a vedere chi si esibisce e poi c’è il pubblico normale, ossia quello che non ci va mai e che è la grande maggioranza. A Salisburgo c’è un concentrato di pubblico elitario, leggero e privilegiato. Non credo che il mondo dell’opera debba andare in quella direzione oggi. Evidentemente anche il pubblico privilegiato ha il diritto di assistere agli spettacoli ed è certamente benvenuto, ma non credo ci si possa accontentare di quel pubblico. E non si tratta di far venire il pubblico più giovane ma di allargare l’opera a un pubblico che non sia fatto dei soliti aficionados».

«Evidentemente anche il pubblico privilegiato ha il diritto di assistere agli spettacoli ed è certamente benvenuto, ma non credo ci si possa accontentare di quel pubblico».

«A metà aprile a Madrid si terrà il World Opera Forum, una grande conferenza organizzata da tre grandi network come Opera Europa, Opera America e Ópera Latinoamérica. In preparazione di questa conferenza, a tutti i direttori d’opera è stato sottoposto un questionario nel quale si dovevano indicare le priorità nella nostra attività. Io ho risposto che una delle priorità assolute che il mondo dell’opera deve stabilire nel XXI secolo è superare il pubblico d’opera abituale per rinnovarlo, allargarlo, ringiovanirlo e democratizzarlo. Ebbene, non credo che quello sforzo sia stato fatto dal Festival di Salisburgo fino a oggi. Credo sia un errore non farlo. Anche se ho amato molto alcune delle produzioni del Festival, produzioni davvero eccellenti, non amo l’immagine dell’opera che viene trasmessa da Salisburgo. Ogni festival, specialmente quelli ricchi come Salisburgo, dovrebbero anche occuparsi del pubblico che non ha accesso. Saremmo molto più forti se facessimo questo lavoro insieme e insieme con i teatri d’opera in Europa e in America. Si tratta anche di una questione di immagine dell’opera.»

E il Festival di Aix-en-Provence, invece, quel lavoro sul pubblico lo ha fatto?

«Posso darle qualche dato, anche se il lavoro non è finito. Nel 2007 a Aix-en-Provence ho creato un servizio educativo e in seguito un servizio socio-artistico, che lavora molto nel sociale e nell’ambito delle associazioni, degli ospedali, degli istituti di pena e così via. Ogni anno noi accogliamo fra le 5 mila e le 6 mila persone che partecipano per la prima volta al festival. Si può trattare di giovani ma anche di coloro che arrivano al festival attraverso il canale delle associazioni e che partecipano sia gratuitamente sia con formule finanziarie di favore. Con l’Università abbiamo sviluppato vari progetti da almeno quattro anni (solo lo scorso anno abbiamo coinvolto circa 550 studenti in diverse attività). Queste sono iniziative concrete. Inoltre, nel 2013 abbiamo creato “Aix en juin”, una sorta di preludio al festival di luglio, fatto di eventi quasi completamente gratuiti, che accoglie circa 20 mila spettatori nella regione di Aix e Marsiglia. Le do un altro dato: su una media di 80 mila spettatori che partecipano annualmente al Festival di Aix-en-Provence, fra 25 e 30 mila spettatori partecipano a attività gratuite. Certamente ci sono anche gli spettatori che pagano prezzi molto elevati e quelli che pagano prezzi ragionevoli, fra i 30 e gli 80 euro».

«Una delle priorità assolute che il mondo dell’opera deve stabilire nel XXI secolo è superare il pubblico d’opera abituale per rinnovarlo, allargarlo, ringiovanirlo e democratizzarlo».

«La sola risposta che vedo oggi, da persona pragmatica come sono, per riuscire a coprire i costi elevati dell’opera abbiamo bisogno di un pubblico privilegiato, di un pubblico mediamente privilegiato ma dobbiamo anche imperativamente garantire l’accesso a persone che non hanno mezzi economici sufficienti e per le quali l’opera non fa parte delle abitudini culturali. Queste persone sono spesso la parte migliore del pubblico per spontaneità e creatività. Alcune rappresentazioni, soprattutto nei primi giorni di festival, tendono ancora a essere frequentate soprattutto da sponsor o da VIP, mentre le ultime sono frequentate soprattutto da giovani. Infine, da qualche anno organizziamo anche proiezioni gratuite in diretta su grande schermo in circa trenta località della regione provenzale con la speranza che questo nuovo pubblico possa trovare un giorno la via del festival. E potrei ancora parlare dell’Académie du Festival e dei concerti in decentramento. Aix-en-Provence ha certamente fatto molti progressi».

È soddisfatto di quel che è riuscito a raggiungere in termini di diversificazione del pubblico tradizionale?

«La questione dell’allargamento e della diversificazione del pubblico l’abbiamo sicuramente affrontata ma non risolta: non posso essere soddisfatto dei risultati, ma lo sono della dinamica. Penso che sia necessario fare ancora progressi ma soprattutto occorre farlo in tutta Europa in maniera coordinata se vogliamo trasformare l’opera in un’arte viva e in un’arte che dia un senso al nostro mondo».

Serve a qualcosa l’opera?

«Se l’opera, e più in generale l’arte, ha un’utilità è proprio perché è inutile. È questa condizione che dà all’arte in generale una dimensione molto diversa dalla maggior parte delle cose che la nostra società produce oggi. E di questa eccezione culturale, di questa differenza di status, la nostra società ha un bisogno enorme. Forse in altre epoche quel ruolo l’hanno avuto i monasteri o le pratiche religiose o rituali. Oggi credo che quella funzione sia passata all’arte».

«Se l’opera, e più in generale l’arte, ha un’utilità è proprio perché è inutile».

«Ma darò anche una risposta più prosaica alla sua domanda. I dati dimostrano che esiste una grande differenza fra città che possiedono un teatro d’opera e città che non ne possiedono oppure fra le città che possiedono teatri d’opera dinamici e quelle nelle quali i teatri sono moribondi. L’attrazione della città, la qualità dell’immagine che si produce, i rapporti che si stabiliscono fra artisti invitati e popolazione possono cambiare in misura significativa le realtà economiche e sociali e l’attrattività turistica delle città. Non amo molto troppo questa seconda risposta, ma la utilizzo volentieri per dire che il Festival d’Aix-en-Provence ha un impatto economico enorme sul territorio di Aix, ben superiore all’ammontare delle sovvenzioni che riceve».

Aix-en-provence, Foccroulle
Il Théâtre de l’Archevêché prima della rappresentazione del Don Giovanni, regia di Jean-François Sivadier (2017)
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Parliamo dell’Italia. In un suo intervento di qualche anno fa a Opera Europa, lei ha usato parole piuttosto dure: “In Italia e altri paesi europei i teatri d’opera sono sull’orlo del fallimento. Ma ciò non si deve solo ai drastici tagli di bilancio degli anni recenti ma anche, in maniera più generale, a una cattiva comprensione dei cambiamenti che ci interessano: mantenere uno status quo non ha più senso oggi”. È rimasto di quell’idea?

«Adoro l’Italia e sono profondamente riconoscente a quel paese per tutto quello che ha dato alla storia della musica e dell’opera. E proprio perché adoro l’Italia mi rattrista profondamente constatare lo stato attuale dell’opera in un paese in cui vengo diverse volte ogni anno e che, con la Francia, è quello in cui mi sento di più a casa. E in Italia, in particolare, la relazione fra patrimonio culturale e natura è una cosa assolutamente straordinaria. Per quanto riguarda l’opera, però, personalmente trovo la situazione catastrofica per vari motivi. La sovrapposizione di diversi problemi crea una crisi, che mi sembra molto profonda. Per cominciare, c’è un problema di programmazione: il repertorio che gran parte dei teatri lirici italiani propone è solo una piccola parte di quello che viene abitualmente proposto in tutto il mondo. Ad esempio, l’opera barocca non ha quasi visibilità, così come l’opera contemporanea, comunque presente in misura molto limitata. Solo un numero relativamente limitato di titoli tornano periodicamente, titoli che danno una rappresentazione molto parziale di quella che è stata la storia dell’opera. Il secondo problema è, a mio parere, il peso sproporzionato dello “star system”: i teatri lirici italiani danno grande rilievo a cantanti molto noti, che spesso compensano con cachet molto elevati quando non eccessivamente elevati. Lo “star system” non credo sia il modo corretto di pensare al mondo dell’opera oggi, perché tende a dare troppa importanza a alle individualità e non al lavoro di squadra. Oggi è necessario creare dei collettivi, delle vere squadre, che, se mi passa il parallelo, sono anche quelle che oggi fanno del buon calcio. Come il calcio, l’opera oggi funziona se si crea la squadra».

«Personalmente, trovo la situazione dell'opera in Italia catastrofica per vari motivi».

«Ma il problema più grave è che in Italia non si ponga abbastanza la questione del senso dell’opera: ciò che l’opera ha da dirci oggi è ancora troppo spesso secondario rispetto all’importanza dell’immagine, delle scene e così via. Lo vedo dalle occasioni (scarse) di collaborazione con i teatri italiani. Credo sia un gran peccato perché significa che si rinuncia a pensare che l’opera sia portatrice di senso e, del resto, è solo così che si può coinvolgere nuovo pubblico. Da quel che vedo e seguo, in Italia non si fa un lavoro sufficiente sul rinnovamento e ringiovanimento del pubblico. E non parlo dei contratti di lavoro o dell’organizzazione dei teatri d’opera o della proporzione dei costi fissi fin troppo elevata rispetto a quella dei costi nelle produzioni artistiche».

Eppure qualche eccezione virtuosa esiste anche in Italia, non trova?

«Non voglio dire che in Italia ci siano solo cose prive di interesse. Ciò che dico è vero in generale, ma riconosco che ci sono casi isolati ben diversi e dei teatri che fanno un lavoro notevole. Per esempio, l’As.Li.Co. da anni fa un lavoro magnifico sul rinnovamento del pubblico. E a Parma quest’anno ho visto il bellissimo Stiffelio di Graham Vick, che personalmente ho trovato formidabile. Ma mi faccia aggiungere un punto importante. Mi piacerebbe si calcolasse la media dell’età dei registi che lavorano nei teatri lirici italiani: sono certo che risulterebbe superiore ai 60 anni. Io sono personalmente testimone di tutta una generazione di giovani artisti di grande talento – cantanti, musicisti e artisti creativi – che i teatri italiani non solo non valorizzano, ma marginalizzano quando non li dimenticano o li trascurano. Questa situazione produce in me una grande sofferenza e lo dico con un certo vigore o forse una certa violenza nella speranza che le cose cambino».

«Mi piacerebbe si calcolasse la media dell’età dei registi che lavorano nei teatri lirici italiani: sono certo che risulterebbe superiore ai 60 anni».

«Ho avuto parecchie occasioni negli ultimi anni di scambiare opinioni su questa situazione, ma le analisi non considerano il problema nella sua globalità. Se si riduce il problema dell’opera in Italia soltanto a una questione di contratti di lavoro o di scarsi finanziamenti, non si troverà una soluzione perché questi aspetti, benché importanti, non sono che una parte dei problemi del settore. E non voglio parlare di “malgoverno”: credo che il sistema di sovraintendenti di nomina politica non produca mai buoni risultati. La direzione di un’organizzazione culturale come un teatro d’opera dovrebbe godere della più ampia autonomia, ma questa è un’altra discussione. Nel complesso credo che la situazione sia globalmente preoccupante, non all’altezza delle sfide del nostro secolo. Sinceramente sarei molto felice di vedere l’Italia tornare a essere il paese che ha fondato l’opera e che ha avuto momenti storici straordinari nel XVII, nel XVIII e nel XIX secolo con Verdi e ancora nel XX secolo con qualche importante presenza anche nel dopoguerra con la Scala di Visconti, Strehler e Abbado. Provo un senso di frustrazione, in quanto artista europeo, nel vedere che l’Italia ha perso quel posto importante che ha occupato fino a qualche decennio fa». 

Sulle coproduzioni lei ha dichiarato che “l’aspetto finanziario è secondario; è piuttosto l’idea della circolazione che è importante. Se si guarda a quante opere sono state create nelle ultime decadi, hanno avuto solo poche rappresentazioni e poi sono state dimenticate. Alcune di queste meritano un futuro migliore”. Anche su questo piano, l’Italia operistica non è molto presente nel panorama internazionale. Lei ci ha provato da direttore del Festival di Aix-en-Provence?

«Certamente! Le faccio un esempio: nel 2002, quand’ero direttore alla Monnaie di Bruxelles, ho commissionato a Luca Francesconi l’opera Ballata, un lavoro assolutamente magnifico di una personalità di rilievo fra i compositori europei. Ho personalmente contattato quasi tutti i teatri lirici italiani: nessuno, dico nessuno, ha voluto coprodurre o riprendere quest’opera. Lo trovo un esempio che fra intristire. Con Written on Skin di Benjamin non è stato lo stesso ma non è andata molto meglio: l’Opera di Firenze era fra i coproduttori ma, a causa della grave crisi che ha colpito il teatro, la produzione non è mai arrivata in Italia. L’Italia vanta alcuni fra i migliori compositori europei, eppure ho l’impressione che nel loro paese non siano sufficientemente riconosciuti, eseguiti, celebrati. E prenda ad esempio un artista come Romeo Castellucci: lo invitano forse a fare regie d’opera in Italia? No. Eppure è invitato a lavorare nei maggiori teatri lirici e festival europei. È assurdo».

Le fa paura il populismo che sta prendendo forza in molti, se non tutti, i paesi europei? Come deve rispondere il mondo dell’opera e, più in generale, della cultura?

«È una domanda importante. Certo che mi fa paura, perché è un fenomeno che prende piede molto velocemente. Oggi viviamo in una situazione che era impensabile fino a dieci anni fa. In molti paesi europei come l’Austria è in atto una banalizzazione dell’estrema destra, del populismo e generalmente del nazionalismo, che trovo molto preoccupante, molto spesso sostenuta da discorsi vuoti che non tengono conto della realtà vera, che lanciano “fake news” o messaggi demagogici. È una situazione molto problematica che riguarda tutti i paesi europei. Lei mi chiede se il mondo della cultura può fare qualche cosa per contrastare questa situazione. Da un certo punto di vista, può farlo: in una certa misura le opere d’arte, soprattutto le grandi opere d’arte, vanno sempre oltre le apparenze, che si tratti di Shakespeare, di Verdi, di Mozart, di Luigi Nono o di Salvatore Sciarrino. C’è qualcosa in quelle opere che porta l’artista o lo spettatore oltre la superficie, la grossolanità o la volgarità di certe situazioni o di certe informazioni. A mio avviso, la questione che si pone è: l’opera sarà in grado di influenzare la società o sarà piuttosto la società, sempre più populista, che influenzerà e forse ucciderà la libertà di espressione e la vitalità potenziale dell’opera? Non è una battaglia vinta in partenza».

«Prenda ad esempio un artista come Romeo Castellucci: lo invitano forse a fare regie d’opera in Italia? No. Eppure è invitato a lavorare nei maggiori teatri lirici e festival europei. È assurdo».

«Per quanto mi riguarda io credo all’idea di resistenza. Da un lato, spero in una mutazione sociale che è molto pressante, ma so che oggi non siamo ancora in condizione di rifondare qualcosa di nuovo e, in ogni caso, su grande scala. Oggi siamo piuttosto in uno stato di resistenza, di resistenza democratica, di resistenza ecologica, di resistenza sui valori della solidarietà, eccetera. Penso che politicamente occorra resistere oggi nella speranza che, una volta passata l’onda populista che sta travolgendo l’Europa, arrivino delle onde più positive e più giovani che portino un mondo nuovo. Ma non è una battaglia vinta in partenza».

Sono passati tre anni da quando ha annunciato la decisione di lasciare la direzione del Festival di Aix-en-Provence e la volontà di dedicarsi completamente all’attività concertistica e compositiva: è davvero pronto ad abbandonare il suo impegno diretto nella politica culturale?

«Ci saranno certamente elementi di continuità con le mie esperienze precedenti, altrimenti non sarei felice. Ma ci sono anche molti punti interrogativi, certo. Nel corso della mia vita professionale ho affrontato molte sfide in diversi momenti. Una grande sfida è stata, a trent’anni, iniziare la registrazione dell’integrale di Johann Sebastian Bach, un progetto al quale ho dedicato una quindicina d’anni di vita e che mi ha trasmesso per sempre l’energia di questo grande musicista. A quarant’anni poi è arrivato l’impegno a La Monnaie: riprendere la successione di Gérard Mortier è stata una sfida enorme da tutti i punti di vista. E quindi la direzione del Festival di Aix-en-Provence. Ora quella fase si sta per chiudere e, in questo nuovo ciclo che si apre, vorrei avere più tempo da dedicare a progetti di scrittura, di composizione, di interpretazione, di riflessione. Vorrei farlo comunque conservando certi fili conduttori che ho seguito per venti, trenta o quarant’anni e che fanno riferimento a tutto quello di cui abbiamo parlato. Se comporrò un’opera, cosa molto probabile, spero anticipi quell’onda positiva di cui le nostre società hanno così tanto bisogno».

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