In viaggio con The Necks

Travel è il nuovo album del trio australiano The Necks

The Necks
Disco
jazz
The Necks
Travel
Northern Spy
2023

Dopo 36 anni di attività e una ventina di album, ancora nessuno sa dire con esattezza a quale famiglia musicale appartengano gli australiani The Necks, divenuti nel frattempo oggetto di culto venerato su scala planetaria: status appena confermato dal servizio di copertina sulla bibbia dell’avant-garde “The Wire”.

– Leggi anche: The Necks, una guida all'ascolto in 10 dischi

Rimane dunque un affascinante enigma il trio generato dall’incontro nel sottobosco indipendente di Sidney fra il bassista Lloyd Swanton, il batterista Tony Buck e il pianista Chris Abrahams (neozelandese di nascita).

Interpellato da “Uncut” in occasione dell’uscita di Travel a proposito dell’intenzione originaria, quest’ultimo ha spiegato: «È da sempre qualcosa dal finale molto aperto, senza obiettivi predeterminati, a parte suonare insieme». E ha aggiunto: «Agiamo intuitivamente, lasciando che sia la musica in divenire a dettare la direzione».

Il metodo di lavoro è basato – tanto per il materiale registrato quanto nelle esibizioni pubbliche – sulla libera improvvisazione e ha perciò attinenza con le modalità del jazz, ma allude pure alle jam session tipiche di certo rock sperimentale (i Can, volendo citare un esempio calzante).

In particolare, il contenuto dell’opera in questione deriva dall’abitudine che i tre coltivano ultimamente, iniziando la giornata con una mezz’ora scarsa di seduta creativa: «Una piacevolissima pratica collettiva che favorisce la nostra concentrazione e dalla quale è scaturita un po’ di buona musica», a detta di Swanton.

Come già nei recenti Unfold (2017) e Three (2020), il repertorio è frazionato in brani relativamente brevi (venti minuti in media), anziché sfociare nel flusso monolitico che ne caratterizzava in genere le prove discografiche.

In apertura di sequenza troviamo “Signal”, introdotto da un insistito riff di contrabbasso accoppiato a un moderato swing di batteria su cui si adagiano accordi sparsi di pianoforte, prima che subentrino il fraseggio minimalista dell’Hammond e gli inopinati inserti di una chitarra elettrica in levare (maneggiata in differita da Buck), mentre il ritmo accelera impercettibilmente e l’effetto d’insieme provoca una sorta di trance ipnotica.

Tracce degli interventi di sovraincisione si notano anche in “Imprinting”, dove gli strumenti vengono trasfigurati (gli acuti da tromba dell’archetto sulle corde o il piano elettrico talmente strozzato da somigliare a una chitarra) e s’intonano così a una claudicante cadenza da funk africano in oppio.

E se dei quattro episodi “Forming” è quello più prossimo alla morfologia del jazz, con la vibrazione “free” che movimenta un crescendo d’intensità affine allo spiritualismo dei Coltrane, il conclusivo “Bloodstream” si avventura altrove accoppiando alla solennità liturgica dell’organo l’impronta gospel del pianoforte su greve bordone di contrabbasso e scariche di rullante, fino a raggiungere epici picchi emotivi che replicano su disco l’impagabile pathos catartico di cui sono capaci The Necks dal vivo.

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