Il toccasana The Necks

“Post jazz” terapeutico dal trio australiano The Necks nel nuovo album Three

THE NECKS - Three - nuovo album
Disco
jazz
The Necks
Three
Fish Of Milk
2020

Come definire ciò che suonano The Necks? All’apparenza sembra jazz, ma chiamarlo in quel modo equivarrebbe a dire che i Radiohead fanno rock. Lo attesta il milieu di provenienza: Chris Abrahams e soci arrivano infatti dal sottobosco indipendente che animava Sidney al principio degli anni Ottanta, lo stesso della band punk Celibate Rifles, alla memoria del cui cantante Damien Lovelock, scomparso la scorsa estate, è dedicato in maniera esplicita l’episodio centrale nel disco nuovo Three, sedicesimo da studio nell’arco di un abbondante trentennio.

The Necks, una guida all'ascolto in 10 dischi

A confermarne lo status di apolidi in senso stilistico sono le recenti collaborazioni con gli alfieri britannici della techno da hit parade Underworld, nel monumentale progetto Drift, e il guru alternativo statunitense Michael Gira, nell’album degli Swans Leaving Meaning. Quest’ultimo, per descriverne le qualità, ha usato gli aggettivi “ipnotico”, “trascendentale” e “sublime”. Ed è ormai proverbiale l’affermazione enunciata nell’ottobre 2017 sulle pagine del “New York Times” da Geoff Dyer, autore di Natura morta con custodia di sax, che dichiarando la propria “ossessione” per loro li ha eletti “miglior trio sulla faccia della Terra”.

Sentenza iperbolica? Chi ha avuto occasione di ammirare The Necks dal vivo sa che non è così: avventurandosi nell’improvvisazione, esplorano ineffabili luoghi sonori con impressionante intensità emotiva e superba padronanza strumentale, offrendo ogni volta un’esperienza d’ascolto differente dalle precedenti. In sala di registrazione, viceversa, i tre si presentano avendo predeterminato il canovaccio sul quale esprimersi: è avvenuto anche in questa circostanza, con risultati straordinari.

Apre la sequenza “Bloom”, con vorticare magmatico di percussioni, profondo groove di contrabbasso e liquidi accordi di piano, su cui a tratti s’innesta un sintetizzatore, evidente all’epilogo, dopo 21 minuti di trance estatica.

Viene poi il citato e ancora più esteso “Lovelock”, dove Abrahams indirizza le note rarefatte del pianoforte su un malinconico registro ambient, accompagnato dal brusio dell’archetto di Lloyd Swanton sulle quattro corde e dalle ritmiche astratte disegnate alla batteria da Tony Buck. In “Further”, anch’esso oltre la soglia del ventesimo minuto, il sentore spirituale – rafforzato da uno struggente bordone d’organo – si approssima al misticismo jazz evocato da Abdullah Ibrahim o McCoy Tyner.

Three è dunque opera di grande valore, ma soprattutto dotata di proprietà che diremmo terapeutiche: inestimabili in giorni come questi.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

jazz

Il Made In Japan di Paal Nilssen-Love e Ken Vandermark

Diario di un tour nel Sol Levante, Japan 2019 ribadisce l’intransigente ricerca del duo norvegese-statunitense

Piercarlo Poggio
jazz

Il flauto magico di Shabaka

Nel nuovo album Shabaka Hutchings abbandona il sassofono per dedicarsi allo shakuhachi

Alberto Campo
jazz

Moor Mother, il prezzo della schiavitù

The Great Bailout, nuovo lavoro della statunitense Camae Ayewa, illumina un risvolto del colonialismo britannico 

Alberto Campo