Superata l’ondata di celebrazioni per il centenario della morte, Giacomo Puccini continua a essere uno dei compositori più amati nei teatri lirici europei, e la sua Turandot resta tra le opere predilette dal pubblico. Un nuovo allestimento dell’ultima opera pucciniana è atteso a partire dal 17 maggio allo Staatstheater di Mainz, con la direzione di Francesco Cilluffo e un cast che include Julja Vasiljeva, Antonello Palombi e Julietta Aleksanyan nei ruoli principali. La regia è affidata a Gianluca Falaschi, celebrato costumista che da alcuni anni ha intrapreso anche la carriera di regista lirico. Nato a Roma, Falaschi ha studiato Architettura, Lettere e all'Accademia di Costume e Moda, e ha lavorato con registi come Barrie Kosky, Lydia Steier, Davide Livermore e Arturo Cirillo. Per i suoi costumi, ha ricevuto riconoscimenti prestigiosi come il Premio Abbiati e il Premio Ubu. Dopo il debutto a Martina Franca con l’Angelica di Porpora, allo Staatstheater Mainz ha firmato come regista, scenografo e costumista una Adriana Lecouvreur particolarmente apprezzata, allestita durante gli anni difficili della pandemia. A quattro anni da quell’esperienza, abbiamo incontrato Falaschi durante le prove della nuova produzione per parlare con lui di questa sua nuova Turandot, della sua visione del teatro d’opera, del rapporto con Puccini e della consapevolezza artistica maturata nel tempo.

Chi è Turandot?
«Posso permettermi di cambiare la domanda?»
Prego.
«Partirei da un’altra parte: chi è Calaf?»
Perché da Calaf?
«Perché è attraverso lo sguardo di Calaf che, in quest’opera, noi guardiamo Turandot. Calaf è un riflesso di Puccini. È una figura attraverso cui il compositore interroga se stesso, si guarda allo specchio, si misura. Studiando quest’opera, ho maturato l’idea che, componendola, Puccini stesse compiendo un bilancio profondo della propria esistenza: chi era stato, come uomo e come artista. Sentendo la morte avvicinarsi, credo abbia voluto riflettere sul senso stesso dello stare al mondo. In questo senso, Calaf incarna quella riflessione: è (anche) Puccini. Ma, più in generale, è chiunque di noi si ritrovi “nel mezzo del cammin di nostra vita”, in quella fase in cui il tempo accelera, il futuro si assottiglia, e sorgono domande radicali. Calaf è l’uomo che guarda indietro e si chiede: “Cosa ho desiderato? A cosa ho sacrificato il resto?” In lui vedo il motore dell’ambizione, il bisogno quasi viscerale di superare i propri limiti, di raggiungere qualcosa di più grande. Il desiderio, che è vitale. Quella stessa ambizione che sicuramente aveva animato Puccini: uomo capace di riformare il linguaggio operistico e di superare la provincia in cui era nato. Ma poi arriva il momento in cui si guarda la vita da vicino, con lucidità e tremore. E si capisce che possiamo lanciare ancora i dadi contro il destino, ma come in un casinò — il banco vince sempre. È la vita a vincere su di noi».
E quindi non saremo nella “Pekino, al tempo delle favole” come prescrive il libretto…
«Esatto. Calaf non arriva a Pechino: Calaf si ritrova a Pechino. E in questo caso, Pechino è un casinò in una terra persa di un qualunque Occidente. Come Dante nella selva oscura, o come Ulisse in mezzo al mare, mentre resiste al canto delle sirene, Calaf è perso. È dentro, ed è trascinato da una corrente, da una moltitudine, che corre, corre, senza una vera meta. L’unica cosa che rallenterà per un attimo questo gorgo, è una morte inattesa, un sacrificio personale, un atto di generosità».
Torniamo a Calaf: si potrebbe quindi dire che ognuno di noi è un po’ Calaf?
«Sì, potrebbe. Calaf è chiunque si trovi nel mezzo del proprio cammino esistenziale. In lui vedo il motore stesso dell’ambizione: l’urgenza di cercare un ulteriore confine su cui poggiare la propria bandiera, senza la consapevolezza — o forse solo alla fine — che sarà la vita a vincere su di lui. Calaf è, allo stesso tempo, la tensione a sfidare tutto e la resa dolente a una verità più grande di noi».

A questo punto chiudiamo il cerchio e torniamo alla domanda iniziale: chi è Turandot?
«Turandot è, appunto, la vita nella sua totalità, e quindi anche la morte. Non è semplicemente un personaggio: è una metafora, è l’esistenza stessa. Un’entità complessa, frammentata, addolorata, ferita, violentata da battaglie combattute sul suo stesso corpo; la somma di ciò che ci attraversa: speranze, illusioni, desideri, sconfitte. Veglia su questo casinò di cui lei è la sola padrona. Ma è chiaro che questo non vuole essere solo un luogo fisico: è una bisca, una sala da gioco, ma anche un’anticamera, un limbo tra mondi. Potrebbe essere l’inferno, il paradiso, oppure l’esistere stesso che si rivela per quello che è: un Purgatorio in terra. In questa sala d’attesa per l’aldilà, l’umanità gioca: si agita, spera, perde, si illude, prova ancora. E su tutto, su tutti, incombe Turandot. È la forza che ci osserva e ci travolge, che non si lascia possedere né decifrare. Turandot è la grande sfinge del vivere: quella che pone enigmi a cui non esiste una vera risposta, perché l’unica verità è che, alla fine, è a lei la vittoria».
Da quanto dici immagino che non ci sarà il finale solo abbozzato da Puccini.
«Esatto. Per me, l’opera si conclude con la morte di Liù. Non solo perché Puccini si fermò lì, ma perché, in quel momento, tutte le illusioni crollano. L’anelito di Calaf, come quello dei suoi predecessori, viene infranto da Turandot. Dopo Liù, resta solo il silenzio».
Non ti piace il finale Alfano?
«Il punto è che trovo emblematico che Puccini abbia compiuto la sua opera solo fino alla morte di Liù. È come se, arrivato a quel punto, avesse compreso che non si poteva andare oltre. Come un grande scommettitore che si ritira dal tavolo, consapevole che l’avventura è finita. Consapevole di aver vinto tutto e perso tutto. In quel filo sottile dell’ottavino che si leva dopo la morte, io sento un distacco: un’anima che lascia la stanza, che esce dal tempo, che si domanda dell’altrove».

“Turandot non esiste! Non esiste che il Niente, nel quale ti annulli...” dicono i tre ministri Ping, Pang e Pong per far desistere Calaf. Cosa significa per te?
«Significa che stiamo giocando contro l’intangibile. Contro un’idea. Turandot non è una persona: è un miraggio, è l’enigma che ci ossessiona, una potenzialità, una promessa. È ciò che ci fa alzare dal letto ogni giorno: quella speranza che ci tiene in vita, e che, al tempo stesso, delude sempre. Nel mio allestimento, Turandot è un angelo e un mostro, le due facce della luna, la notte ma anche il desiderio stesso di risvegliarsi ancora. Chi entra in un casinò, come Calaf, gioca contro la propria fine, cercando – anche solo per un istante – di elevarsi, di sfuggire, di eternarsi. Turandot è un premio che nessuno può vincere, è un sapere che non ci appartiene».
A proposito, che ruolo hanno i tre ministri Ping, Pong e Pang nella tua produzione. Come minimo, si può dire siano personaggi ambivalenti …
«Non voglio svelare troppo, ma posso dire che nello spettacolo Ping, Pang e Pong saranno particolarmente crudeli. Sono i veri lavoratori di questo mondo immobile, insieme al boia e al Mandarino: gli unici che agiscono davvero. Nessun altro si sporca le mani. Nessun altro lavora. E come molti lavoratori, sono infelici, scontenti del loro padrone: lo criticano di nascosto, ma lo ossequiano in pubblico, per sopravvivenza o per rassegnazione».
Qualcuno ha detto che Turandot riassume tre punti di vista, in qualche modo inconciliabili quando si deve mettere in scena: quello di Calaf, quello di Turandot, quello del popolo. È necessario sceglierne uno, non essendo possibile rappresentarli tutti e tre allo stesso tempo: sei d’accordo?
«Infatti io ho scelto. Io credo di averla posta nello sguardo di Calaf, come ti dicevo all’inizio. O forse nel sogno di Calaf, nella visione di Calaf, nel suo subconscio. Credo che tutto accada dentro di lui: è un sogno, forse un delirio, forse l’ultima visione prima della fine. Tutto ciò che vediamo – Turandot, il popolo, Liù, Timur – è reale e al tempo stesso simbolico, come accade nei sogni. Liù e Timur non sono necessariamente persone: sono voci interiori, richiami al dovere, presenze archetipiche, ricordi. Anche il coro, nella mia lettura, non è un solo un popolo in carne e ossa, ma un insieme di presenze astratte, gocce del nostro smarrimento collettivo. Si potrebbe certo raccontare Turandot anche attraverso il suo stesso sguardo, ma credo che lo sguardo di Turandot non sia umano. È uno sguardo che viene da altrove, uno sguardo che forse ci osserva come formiche, o forse non ci osserva affatto. È lo sguardo di ciò che non sappiamo, dell’ignoto. Per questo, come ti dicevo, “Turandot non esiste, non esiste che il Niente” non è solo una provocazione: è una domanda radicale sull’esistenza di un oltre».

Saremo dunque in una sala dove si gioca d’azzardo, pratica a cui i cinesi, nonostante gli ostacoli legali, continuano ad essere molto attaccati. C’è qualcosa di attuale in questa tua idea?
«Rispetto al casinò, non giudico: osservo. Perché tutto questo fa parte dell’esistenza dell’uomo contemporaneo. Non cerco alcuna condanna moralistica verso i frequentatori della sala da gioco, così come non lo farei verso altre forme di compulsione. Trovo che compulsione e dipendenza, sia una patologia legata all’esistere contemporaneo: non altro che tentativi ritualizzati di reagire alla vita: una via di fuga, un’alienazione dal quotidiano, o una sfida a sopravvivere laddove l’esistenza non regala più la gioia dell’esistere. Il casinò diventa così una metafora dell’essere, ed essere insieme tanto adulti che fanciulli: si gioca, si continua a giocare, per sentirsi respirare ancora. In questo attaccarsi al gioco, c’è anche l’illusione di inseguire un sogno perpetuo di giovinezza. Per questo nel mio allestimento, il coro dei bambini sarà lo spettro di quella giovinezza perduta, la giovinezza dei giocatori: un ricordo, ma anche un monito. La presa di coscienza che quel gioco è un abisso: un tentativo illusorio, eppure profondamente umano, di sfidare la vita — che comunque ci indica sempre, con implacabile calma, dov’è la cassa».
Dal punto di vista di una certa sensibilità contemporanea, uno dei problemi dei lavori Puccini è l’appropriazione culturale. Non è necessariamente il caso di Turandot che, rispetto ad altre opere, adotta esplicitamente il codice delle favole. Spogliando quest’opera della sua dimensione di favola, come ti poni rispetto a questo dibattito?
«Certamente l’appropriazione culturale è una questione molto contingente, e non possiamo far finta che non esista. Lavorando su Turandot, mi sono accorto di quanto di quel modo di vedere la Cina sopravviva ancora oggi nel nostro quotidiano, nella forma di una cineseria, nello sguardo di noi occidentali colonialisti. Riflettendo, nulla è stato più coloniale, in effetti, dell’imperialismo americano, che ha profondamente condizionato l’immaginario estetico contemporaneo, attraverso la televisione, il cinema, la pubblicità e la promessa eternata di un sogno individuale realizzabile. Così, in scena, ho unito le due cose: il nostro casinò potrebbe trovarsi in una Chinatown di qualunque città occidentalizzata — come New York o Sydney —, tra insegne, simboli e tracce decorative cinesi rimasticate e rielaborate dal nostro Occidente. Potrebbe essere una fabbrica di immigrati cinesi occupata e trasformata in una bisca clandestina, dove i segni della Cina sopravvivono sbiaditi sui muri, tra vecchi manifesti pubblicitari. Mi sono appropriato più di alcuni stilemi americani che di elementi autenticamente cinesi, o piuttosto di quelle commistioni anglofone che reinterpretano la Cina in chiave estetica: come le pagode che, a Sydney, spuntano qua e là senza ragione apparente. Forse questa Turandot potrebbe sembrare ambientata in una infinita notte di Halloween, piena di spettri — una festa che, più di tutte, ha colonizzato il mondo intero — oppure dentro un film americano, magari, e lo dico con molta umiltà, in qualcosa che ricorda certe visioni di David Lynch. Del resto, è la musica stessa di Puccini a suggerire quell’ambiguità: quel confine sfocato tra sogno e incubo, dove la Cina si affaccia come un carillon lontano e irreale».
A proposito di musica, come va la collaborazione con il direttore d’orchestra di questa produzione, Francesco Cilluffo?
«Lavorare con il maestro Cilluffo è un grande privilegio, una delle parti più belle di questo progetto. Certo, forse è dispiaciuto che abbiamo scelto di chiudere l’opera alla morte di Liù — perché lui è un estimatore del finale di Alfano — ma è entrato in questo racconto senza riserve, come un vero compagno di viaggio. Cilluffo ha uno sguardo profondamente teatrale e musicale insieme: riesce a cogliere i momenti drammatici nel loro respiro sonoro, a illuminare i passaggi, a tendere le corde giuste. Condividere l’intero processo delle prove fin dall’inizio, avere un direttore che costruisce insieme a te e non “accetta” soltanto quello che hai immaginato, è un’esperienza che cambia la qualità del lavoro e la qualità stessa dello spettacolo. Rafforza quello in cui ho sempre creduto: che il teatro non sia qualcosa che si fa da soli. Il teatro è una barca: ci si sale insieme, e si attraversano insieme anche le tempeste. Questa Turandot infatti è anche il frutto di un cammino iniziato un anno fa, insieme a Elena Garcia Fernandez, la “Dramaturgin” della produzione: il fatto che oggi stia crescendo e sviluppandosi lo devo a questa alleanza tra le diverse voci».
Di questa Turandot oltre alla regia, firmerai anche ovviamente i costumi e le scene: artista totale?
«Quando inizio a lavorare a un progetto, amo avere una visione totale di quello che costruisco: un tempo di ricerca personale, silenzioso, solitario. Ma in questa Turandot ho voluto mettere in pratica anche un altro tipo di forza: quella di un teatro orizzontale. Firmo le scene con Ulrich Schneider, che curerà anche le luci, e i costumi con Anna Missaglia, che per anni è stata la mia assistente e che oggi affianca e firma con me. Non è casuale: credo profondamente in un modo di lavorare che non sia imposizione, ma dialogo. Cerco di non sovrappormi agli altri, ma di camminare al loro fianco, intrecciando visioni, restando fedele alla ricerca di partenza, ma pronto ad arricchirla con la voce di ogni compagno di viaggio. Da maestri come Davide Livermore, Lydia Steier e Barrie Kosky ho imparato che il teatro migliore nasce dall’ascolto, non dal comando. Che il confronto— non il controllo — sia la vera anima del lavoro comune. Non mi interessa, oggi, la verticalità del “padre padrone”, di stampo machista e, diciamolo pure, anche un po’ fascista. Mi interessa l’idea di una flotta che naviga insieme, con più timoni e più vele, seguendo una rotta che forse ho soltanto indicato».
Allora se non artista, almeno artigiano a capo di un’officina dove ognuno dà il suo contributo?
«Proprio qualche giorno fa ho letto un’intervista in cui una regista si definiva artista. Il concetto di artista in teatro è contraddittorio secondo me. Personalmente faccio fatica a proclamarmi artista: siamo artigiani, e solo talvolta, in certi momenti rari, ciò che facciamo ha la possibilità di sfiorare l’arte. Mi piace pensare che il mio compito sia spingere un gruppo di persone a costruire un tavolo. E poi stupirmi nel vederlo: diverso, più ricco, più complesso di come l’avevo immaginato. Un tavolo che porta ancora l’ombra della sua idea iniziale, ma che si è arricchito di mani, di sensibilità, di imprevedibili bellezze. Vorrei poterti rispondere che è l’esperienza totale a condurmi verso uno spazio che cerco».

Questa è la tua terza regia allo Staatstheater di Mainz, dopo Adriana Lecouvreur e L’Angelica di Porpora coprodotta con il Festival della Valle d’Itria. Un luogo ideale per te?
«Sì, senza dubbio. Mainz è diventata una casa, non soltanto dal punto di vista affettivo, ma soprattutto dal punto di vista creativo. Qui, come più in generale nei teatri tedeschi, si ha ancora il privilegio di lavorare con il bene più prezioso che esista per costruire davvero uno spettacolo: il tempo. Sei settimane di prove vere, non intese come una corsa contro il tempo, ma come un processo che ti permette di costruire, sbagliare, correggere, maturare un pensiero scenico. Ogni spettacolo è un enigma, che ti costringe a porti domande radicali. Ma senza il tempo, questo enigma rischia di restare sterile; mentre con il tempo, l’enigma si apre, ti sfida, ti costringe a trovare risposte autentiche, magari anche dolorose. In questo senso, Mainz è un luogo ideale: ti dà la possibilità di attraversare quel rischio, invece di aggirarlo».
A Mainz hai anche fatto il salto da costumista a regista: cosa ti senti di dire di questo teatro?
«Un rapporto di gratitudine e di crescita. Sono stato messo in contatto con questa realtà grazie a Lydia Steier, per la quale ho realizzato i costumi per Perelà di Dusapin e Armide di Gluck, spettacoli complessi e ambiziosi, che però furono accolti e sostenuti con grande generosità da tutto il teatro. Grazie a quei lavori venni nominato miglior costumista delle stagioni 2014/15 e 2016/17 nella classifica di Opernwelt. Di questo sostegno devo essere riconoscente a Markus Müller, il sovrintendente, e a Gabriele Donà, allora direttore dell’opera, che non si limitarono a offrirmi fiducia per Adriana Lecouvreur, ma costruirono un percorso che da Adriana arriva oggi a Turandot. Ammetto che ho avvertito più a Mainz, e in generale in Germania, che non in Italia, questa possibilità reale e tangibile di crescita. Una possibilità che non si è concretizzata nella stessa maniera — e in alcuni casi, assolutamente mai — anche in teatri italiani dove pure, come costumista, ho lavorato molto e a lungo, penso ad esempio al Teatro Carlo Felice di Genova o al Maggio Musicale Fiorentino. La differenza sta proprio qui: nel sistema italiano si tende a proteggere ciò che è già definito, a congelare le identità artistiche, a rendere molto difficile il cambiamento di pelle. Si preferisce chiudere le persone nel loro ruolo, in una definizione già data, anziché accompagnarlo nel rischio naturale del suo divenire. Qui, invece, mi è stato concesso il contrario: non di confermare l’immagine che avevo dato di me, ma di rischiare, di aprirmi, di scoprirmi».
Sognavi già dai tuoi esordi nel mondo del teatro di diventare regista?
«Sì, anche se forse non ne avevo ancora piena consapevolezza. Sicuramente sentivo il desiderio di esprimere qualcosa di più ampio, più complesso. Ma ho sempre avuto una forma di pudore interiore, una fedeltà ai tempi naturali delle cose. Credo che alcune trasformazioni non possano essere forzate: se si accelera troppo, si rischia di bruciarsi, di dire parole che non ci appartengono, di rincorrere il consenso degli altri invece di rispettare la propria autenticità. Ritengo di aver dovuto aspettare un certo coraggio, che, ti dirò di più, mi pare visibile più adesso che quando ho cominciato in questa avventura di regia».
Nessun timore di intraprendere un percorso non tuo?
«Non ho mai avuto paura di tentare strade nuove. La regia non mi ha spaventato, così come all’inizio non mi spaventava il costume, perché ho sempre creduto che ogni passo — ogni esperienza — fosse un lento avvicinamento al proprio linguaggio. Un linguaggio che, alla fine, per ciascuno di noi dovrebbe tendere alla chiarezza, alla nitidezza, all’autenticità. Magari sarà un linguaggio che non troverà subito un ascolto. Magari sarà un percorso pieno di errori, ma anche gli errori, a loro modo, sono felici sbagli: fasi necessarie di un processo di costruzione. Ti dirò, in questi ultimi anni, può darsi che abbia sbagliato degli spettacoli; può darsi che sbaglierò ancora. Ma credo di aver sempre affrontato i compiti e le sfide che mi sono posto con il desiderio di raffinare la mia voce, di interpretare una partitura o una storia scritta da altri, trovando ogni volta un linguaggio che potesse essere ascoltato ed inteso con il pubblico contemporaneo. Forse il percorso diventa tanto più tuo quanto più lo padroneggi, ci cammini dentro, impari a conoscerlo; diventa tuo non perché lo possiedi, ma perché ti lasci accrescere da esso».

Dopo diversi spettacoli da regista, come valuti la tua professione di costumista? Una “diminutio”?
«No, per niente. Il costume è stato la prima nave su cui sono salito per attraversare il teatro. Uno strumento che credevo di conoscere — il disegno, la sartoria, la costruzione dei personaggi — e che invece ho imparato davvero solo navigandoci dentro, spettacolo dopo spettacolo, errore dopo errore, per oltre venticinque anni. Ho avuto il privilegio di formarmi con Odette Nicoletti, che mi ha insegnato che il teatro richiede rigore, umiltà, disciplina: che non basta creare qualcosa di bello, bisogna raccontare. Ho capito che un costume non è mai soltanto un abito: è già narrazione, è già drammaturgia, è un racconto silenzioso fatto di memorie, relazioni, desideri. Quando insegno, forse cerco di trasmettere questo: nessuno indossa semplicemente un vestito, ma che ognuno indossa una parte della propria storia, della propria identità, del proprio viaggio. Ripensandoci oggi, so che il costume non è stato un incontro casuale: è stato il mio primo vero apprendistato nel linguaggio del teatro. Attraverso il costume ho imparato a leggere e costruire una partitura scenica, a riconoscere il peso di un gesto, di una presenza, di un silenzio. È stato un viaggio concreto e profondo, fisico e mentale, che mi ha portato molto più lontano di quanto avessi mai sognato: da Sydney a Boston, passando per il Teatro alla Scala, per la Staatsoper di Vienna, per la Germania — luoghi che, da ragazzo, non avrei mai immaginato di poter attraversare».
Ci saranno molte altre regie nel futuro di Gianluca Falaschi?
«Al momento non lo so, ma se anche i porti della regia dovessero chiudersi, so che il costume resterà per me una lingua madre: una forma assoluta di apprendimento del teatro, una forma ancora viva e capace di aprirmi nuove rotte. È una lingua che mi ha insegnato come ogni viaggio sia la scoperta di un vocabolario nuovo, a se stante, una nuova possibilità, un nuovo orizzonte. E che, quindi, nuovi alfabeti, nuove storie, nuovi mondi continueranno ad attendermi, in ogni caso».