Michele Spotti, giovani direttori crescono

Intervista al ventiseienne direttore Michele Spotti che inaugura con Rigoletto il festival dell’Opéra National de Lyon

Michele Spotti
Michele Spotti (foto di Marco Borrelli)
Articolo
classica

Michele Spotti il prossimo 13 marzo – compatibilmente con le modifiche alle norme per gli spettacoli in Francia, in relazione all'emergenza sanitaria  –inaugurerà l’edizione 2020 del festival dell’Opéra National de Lyon, che è il momento culminante della stagione di quello che lo scorso anno è stato giudicato da una giuria di critici musicali il miglior teatro d’opera in assoluto.

Che Spotti sia giunto a tale traguardo – perché un impegno del genere è da considerarsi un traguardo, anche se tanti altri lo aspetteranno nei prossimi anni e gli auguriamo che siano sempre più prestigiosi – è già una notizia, ma ancor più “fa notizia” che questo gli capiti ad appena ventisei anni, un’età precocissima per un direttore d’orchestra, considerando la durata degli studi e del successivo indispensabile apprendistato. Ma Michele Spotti non ha affatto le inquietanti caratteristiche del ragazzo prodigio, che fiorisce precocemente ma sfiorisce ancor più rapidamente. 

Lyon Michele Spotti
Il nuovo Rigoletto a Lione

È sempre stato così precoce – gli chiediamo – fin dai suoi primi approcci alla musica?

«Effettivamente sì, ho iniziato i miei studi musicali a tre anni, sotto la guida di mia nonna, che era musicista. Grazie a lei ho fatto i primi passi in campo musicale, per poi entrare al conservatorio di Milano, dove mi sono diplomato sia in violino che in direzione d’orchestra. Subito dopo mi sono trasferito a Ginevra, dove ho preso un master in direzione d’orchestra e ho studiato anche direzione di coro».

«Ho iniziato i miei studi musicali a tre anni, sotto la guida di mia nonna, che era musicista».

«Determinanti per la mia formazione sono stati gli assistentati all’Opéra di Lione con Alberto Zedda per la produzione dell’Ermione  di Rossini e poi con Stefano Montanari per la produzione de La Cenerentola: per me sono stati dei maestri di vita, oltre che di musica, e mi hanno aiutato moltissimo nel mio percorso artistico».

Dunque ha alle sue spalle una carriera costruita passo dopo passo. Prima il debutto in provincia – a Orvieto, dove ha diretto niente meno che Le Nozze di Figaro, roba da far tremare i polsi a direttori ben rodati –poi l’assistentato con direttori esperti per imparare i segreti del mestiere. Sembra di capire che Lei abbia ritenuto importante iniziare dalla gavetta, come si faceva un tempo, mentre ora molti cercano di saltarla. Perché è importante secondo Lei?

«La direzione d’orchestra è un mestiere che si apprende sui libri e con lo studio ma soprattutto con la pratica, perché per lavorare con i cantanti bisogna conoscere le tecniche vocali e soprattutto bisogna avere un approccio concreto con l’orchestra che si ha di fronte».

Un aspetto del lavoro del direttore di cui si sa ben poco è proprio questo: come avviene l’adattamento delle idee del direttore alle orchestre che si trova a dirigere, sempre diverse per possibilità, per carattere, per abitudini. 

«È il primo scoglio che un direttore incontra. Io non sono pianista e questa si è rivelata una fortuna: per me è un bene non poter leggere la partitura al pianoforte e dovermi affidare al mio orecchio interno per ricreare nella mia testa l’intera partitura con tutti i suoi strumenti. Questo è di grande aiuto nel momento in cui mi trovo davanti all’orchestra, perché mi permette di avere un approccio alla partitura più veritiero, più completo, meno istintivo. Per quanto poi riguarda i rapporti con le orchestre, penso che un buon direttore debba essere al contempo un buon musicista e un buono psicologo, perché in base alle diverse orchestre e anche alle diverse regioni geografiche si ha a che fare con persone, idee, tempi e reazioni diverse e l’approccio all’orchestra deve avvenire con la consapevolezza di tutti questi fattori».

Lei è nell’età in cui ci si comincia a creare un repertorio. Proprio Zedda, dopo averlo avuto come assistente a Lione, l’ha chiamato al Rossini Opera Festival, dove è presente ininterrottamente dal 2016 e anche quest’anno dirigerà un concerto con Juan Diego Flórez. Di conseguenza si è conquistata la fama di direttore rossiniano e molti teatri l’hanno chiamata per dirigere Rossini: ma Lei si sente un direttore soprattutto rossiniano?

«Ritengo un pregio essere considerato un direttore rossiniano, perché Rossini è un autore difficile, che deve essere realizzato con precisione assoluta e di cui bisogna conoscere bene il gusto e lo stile. A Rossini devo moltissimo, a lui sono debitore innanzitutto dell’incontro con Zedda e del settanta per cento dei miei primi ingaggi. Però essere classificato finora soprattutto come rossiniano è stata una casualità. In realtà mi sento veramente a casa con Verdi: è una questione sia di braccio e di tecnica che di idee musicali».

Grazie a Rossini è stato chiamato all’Opéra National de Lyon in qualità di assistente del direttore nelle produzioni di due opere rossiniane, come Lei ha ricordato prima. Ma quello è stato solo l’inizio di una collaborazione che sta dando ottimi frutti.

«Come ho detto, sono arrivato a Lione grazie a Zedda, che mi volle come suo assistente per l’Ermione. Da lì è nato un rapporto duraturo e sincero con Serge Dorny, il direttore generale del teatro, che ha creduto nelle mie capacità. È curioso il modo con cui sono arrivato a dirigere la mia prima opera lì. Finora non l’ho raccontato a nessuno. Durante le prove di Cenerentola (in quel caso ero l’assistente di Montanari) dissi a Dorny che volevo assolutamente dirigere un’opera, un po’ per sfacciataggine, un po’ perché mi sentivo pronto. Dorny mi rivolse uno sguardo un po’ strano e mi sorrise, perché apprezzò la mia intemperanza di quel momento. Una settimana dopo avevo il contratto per dirigere Barbebleu di Offenbach nel 2019, con la regia di Laurent Pelly, uno dei massimi metteur en scène  francesi. Offenbach, pur essendo nato in Germania, è il più francese dei compositori francesi, ma per fortuna conosce bene il francese, perché la parlavo fin da piccolo, poi ho studiato a Ginevra e lì si parla francese».

«Dissi a Dorny che volevo assolutamente dirigere un’opera, un po’ per sfacciataggine, un po’ perché mi sentivo pronto. Dorny mi rivolse uno sguardo un po’ strano e mi sorrise, perché apprezzò la mia intemperanza di quel momento. Una settimana dopo avevo il contratto per dirigere Barbebleu».

Evidentemente a Lione sono stai contenti di Lei, se come secondo impegno in loco l’hanno chiamata per inaugurare il festival 2020 con Rigoletto. La prima è fissata per il 13 marzo, ma le prove sono iniziate il 20 gennaio: è veramente tanto tanto tempo per un’opera di repertorio, che in genere si mette su tranquillamente in quindici giorni o giù di lì.

«In effetti stupisce anche me, perché sono abituato a lavorare molto in Germania, dove i tempi delle prove sono notevolmente inferiori. Ma bisogna considerare che a Lione Rigoletto non è un’opera di repertorio, non la si rappresenta da più di quarant’anni, quest’orchestra non l’ha mai suonata e questo pubblico non l’ha mai sentita, quindi bisogna studiarla ex novo. Mi trovo bene a Lione anche per questo, perché è un’oasi felice per quanto riguarda i tempi di prove e si può affrontare una partitura con calma e con coscienza e riflettere anche sui punti che già si pensa di conoscere benissimo. Quindi per me è un sogno debuttare nel Rigoletto in queste condizioni, soprattutto avendo un protagonista come Roberto Frontali, con cui si è stabilito un rapporto di amicizia oltre che professionale. Per me è un’occasione più unica che rara poter carpire tutte le particolarità di una parte meravigliosa da un interprete come lui con tranquillità, senza avere l’acqua alla gola».

Il Rigoletto è praticamente una novità per il pubblico di Lione ma anche per Lei è la prima volta.

«Sì, ma lo dirigerò di nuovo presto, perché da aprile a luglio sarò allo Staatstheater di Hannover, per Il Barbiere di Siviglia e Rigoletto. È un teatro dove mi trovo molto bene, non ho un incarico ufficiale, ma ci torno spesso». 

In genere ai direttori italiani – giovani e meno giovani – viene offerto di dirigere soprattutto opere, particolarmente opere italiane. E questo avviene non soltanto all’estero ma forse ancor più in Italia. Lei però ha un’attività piuttosto intensa anche in campo sinfonico.

«Sono violinista, ho suonato come spalla dell’orchestra del conservatorio a Milano e questo mi ha dato l’opportunità di conoscere tanto repertorio sinfonico. Amo l’opera e il sinfonico in egual misura, penso che per essere completo un direttore debba dirigere l’uno e l’altra, altrimenti gli manca qualcosa sia a livello di tecnica direttoriale e di gesto sia quanto ad approccio alla partitura e a conoscenza della musica. Voglio essere un direttore completo e quindi dirigo entrambe le cose».

Quali sono le opere che sogna di dirigere?

«Un mio grande sogno lo ho già realizzato dirigendo l’anno scorso Il flauto magico  a Hannover: avere la possibilità di confrontarsi con una partitura come quella è stato meraviglioso. Un altro sogno è il Tannhaüser, una delle mie opere preferite in assoluto. E spero anche di dirigere presto Carmen. Il repertorio italiano mi piace, ma non voglio limitarmi a quello. Spero che la mia vita professionale mi porti a dirigere tutti i repertori».

«Dirigere alla Scala la mia opera preferita, il Falstaff, sarebbe l’en plein». 

«Quanto ai sogni, non sogno soltanto di dirigere determinate opere ma anche di dirigere in alcuni teatri. Da milanese sogno di dirigere alla Scala ma anche il Metropolitan di New York è un mito. Dirigere alla Scala la mia opera preferita, il Falstaff, sarebbe l’en plein». 

E in campo sinfonico quali sono le sue preferenze?

«Brahms e Čajkovskij sono i miei autori prediletti, con cui ho un rapporto meraviglioso, li sento molto vicini, anche per la complessità delle loro partiture, che esigono una ricerca continua, quasi ossessiva, non si finisce mai di studiarle. L’anno scorso con la Sinfonica Siciliana ho diretto la Seconda Sinfonia  di Brahms, quest’anno ritorno al teatro di Cagliari con la Terza. Paradossalmente conoscere bene Brahms aiuta anche in un accompagnamento verdiano, ti fa andare al di là della componente ritmico-melodica per cercare un’architettura di frase molto più ampia, tipica della musica austro-tedesca».

Lei un anno fa ha diretto la Nona Sinfonia  di Beethoven a Hannover. Come ci si sente ad affrontare così giovane un tale monumento della musica in un importante teatro tedesco?

«È stato emozionante. Non nascondo che al primo impatto ero un po’ atterrito da una partitura così mastodontica, però col lavoro, la costanza, lo studio approfondito sono riuscito pian piano a scandagliarla, nei limiti cui può arrivare un ventiseienne: alla fine è stato un grande successo, il pubblico è stato contento, la critica pure. Quel che mi ha particolarmente colpito è stata la grandiosità, ogni movimento è lungo quasi quanto un’intera sinfonia. Per questo richiede uno sforzo psicofisico notevole, che è stato uno degli scogli più impervi da superare». 

Non possiamo finire l’intervista senza la domanda di rito sui suoi impegni futuri.

«Qualche impegno lo ho già anticipato, inoltre ci sarà L’Elisir d’amore  al Petruzzelli di Bari, ma prima tornerò al festival di Martina Franca per La rappresaglia  di Mercadante, mai eseguita in epoca moderna. Ci tengo molto, sarà un piacere far riscoprire quello che per me è un capolavoro. È un’opera buffa del 1829, in cui c’è un po’ di Rossini, anzi tantissimo Rossini. Ci sarà da stupirsi, ha un linguaggio fresco ma sapiente, fa anche un po’ riflettere ma soprattutto fa divertire, è veramente molto divertente».

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