La Beethoven Orchester riparte dalla Beethovenhalle
Intervista al direttore musicale Dirk Kaftan
05 dicembre 2025 • 8 minuti di lettura
Quando fu inaugurata nel 1959, nel cuore della giovane Repubblica Federale Tedesca, la Beethovenhalle divenne subito un simbolo della rinascita culturale del Paese. Più che un semplice auditorium, rappresentava un luogo di incontro, di apertura internazionale e di fiducia nel futuro: una dichiarazione architettonica – luminosa, moderna, ottimista – della volontà di ricostruire non solo città e istituzioni, ma anche un’identità culturale condivisa. Nel corso dei decenni la sala ha accolto capi di Stato, conferenze storiche, festival prestigiosi e, naturalmente, la vita musicale di Bonn, legata indissolubilmente al nome del suo figlio più illustre. Dopo anni di chiusura, ritardi, difficoltà e complessi lavori di restauro, la Beethovenhalle riapre finalmente le sue porte il prossimo 16 dicembre, giorno del compleanno di Beethoven.
Per la Beethoven Orchester di Bonn, costretta a otto anni di nomadismo forzato, il ritorno nel suo auditorium è un vero rientro a casa: un luogo in cui ritrovare stabilità, qualità acustica e identità artistica. La sera dell’inaugurazione sarà celebrata con una festa, la “Lange Beethoven Nacht”, e un programma che naturalmente parte dall’universo musicale del più celebre cittadino di Bonn – l’Ouverture del balletto Die Geschöpfe des Prometheus (Le creature di Prometeo) e il Quarto concerto per pianoforte con il pianista Fabian Müller – apre una finestra sulla musica del presente di Sara Glojnarić, per culminare nella grandiosa Sinfonia n. 2 “Resurrezione” di Mahler che suggella questo nuovo inizio.
A guidare questo passaggio in qualche modo storico è Dirk Kaftan, direttore musicale dell’orchestra dal 2017. Nato a Marburg, formatosi tra Germania e Austria, Kaftan ha costruito una carriera che unisce sensibilità per il grande repertorio, attenzione alla musica contemporanea e una forte visione del ruolo sociale delle istituzioni culturali. In questa conversazione per il gdm racconta il significato di tornare nella Beethovenhalle, le sfide di un’orchestra che porta il nome di Beethoven e l’idea di un teatro musicale capace di parlare al presente senza rinunciare alla tradizione.
Qual è l’idea alla base del programma “Lange Beethoven Nacht”, scelto per la riapertura della Beethovenhalle?
In realtà abbiamo pensato all’inaugurazione come a un percorso che si estende su due settimane. In questo periodo proporremo diversi programmi, fino ad arrivare al 1º gennaio, quando eseguiremo la Nona Sinfonia di Beethoven. Molti si aspettavano che proprio la Nona aprisse la sala il 16 dicembre, ma ho preferito seguire un’altra strada. Chiamarsi “Beethoven Orchester” e suonare nella “Beethovenhalle” non significa limitarsi al repertorio beethoveniano: significa piuttosto lasciarsi ispirare da Beethoven per mostrare l’ampiezza di visione, di ruolo e di repertorio che un’orchestra moderna può avere. Il concerto inaugurale doveva quindi unire un’idea musicale e simbolica forte a una dimostrazione delle nuove possibilità tecniche della sala. Apriremo naturalmente con Beethoven, con l’ouverture dal balletto Die Geschöpfe des Prometheus, simbolo luminoso di arte, creazione ed energia. Seguirà un omaggio al compositore insieme al pianista Fabian Müller, nato e cresciuto a Bonn e affermatosi brillantemente a livello internazionale: un’immagine perfetta dell’intreccio tra radici locali e vocazione cosmopolita che desideriamo incarnare.
Perché accostare al repertorio di Beethoven e Mahler un brano contemporaneo di Sara Glojnarić?
Se prendiamo sul serio l’idea di ispirarci a Beethoven, non possiamo ignorare la musica del nostro tempo. Personalmente ammiro molto Sara Glojnarić e il suo linguaggio. EVERYTHING, ALWAYS è un’immersione nella mente di una compositrice: si ascolta la sua voce sovrapposta all’orchestra, mentre riflette sul proprio processo creativo. È un pezzo pieno di ironia, che gioca con alcuni cliché della musica contemporanea ma, allo stesso tempo, rappresenta un autentico atto di invenzione dal nulla. In modo sorprendente, questo “viaggio” ricorda anche Beethoven: pensiamo all’inizio dell’ultimo movimento della Nona, quando sembra comporre davanti ai nostri occhi i diversi frammenti musicali prima di arrivare all’inno finale. Il percorso creato da Glojnarić ha qualcosa di simile, pur parlando un linguaggio completamente diverso.
Sara Glojnaric, ›EVERYTHING, ALWAYS‹ für Streichorchester und Tonband
MKO | Bas Wiegers (2023)
Che valore simbolico ha per lei la Seconda Sinfonia “Resurrezione” di Mahler, scelta per la serata principale? Rievoca la ‘resurrezione’ della sala?
C’è certamente un sorriso ironico nel celebrare la “resurrezione” di una sala chiusa per così tanti anni. Ma per me la Sinfonia di Mahler è soprattutto un viaggio filosofico che interroga ciò che resta della nostra esistenza. Che senso ha la vita? Qual è il significato della vita di un artista? Sul piano pratico, questa sinfonia mette anche alla prova tutte le possibilità acustiche della nuova sala: coro, organo (suonato da Cameron Carpenter), grande orchestra e due soliste – il soprano Katerina von Bennigsen e il contralto Gerhild Romberger. Nel complesso, il programma attraversa secoli e dimensioni sonore, dalla musica da camera al grande sinfonismo, dal XIX al XXI secolo.
Perché è importante includere musica del XXI secolo in un’occasione così celebrativa?
Ai tempi di Beethoven si suonavano quasi esclusivamente brani nuovi: il concetto di “classico” non esisteva come lo intendiamo oggi. Oggi, invece, rischiamo di trasformare il concerto in una sorta di museo. Se non ci apriamo alla musica del nostro tempo, restiamo fermi. Credo che il nostro compito sia dialogare con il passato, con il presente e con il futuro. Collegare epoche diverse e dare spazio a nuove creazioni è l’unico modo per permettere alla musica di evolvere. Per farlo dobbiamo sviluppare ascolto, curiosità e offrire ai compositori reali opportunità.
Che significato ha per l’orchestra tornare finalmente nella propria “casa” dopo tanti anni?
È un momento estremamente emozionante. Quando sono arrivato nel 2017, la Beethovenhalle era già chiusa, quindi non l’ho mai conosciuta realmente com’era prima dei lavori. Ci dissero che la ristrutturazione sarebbe durata un anno o poco più, ma i ritardi e l’aumento dei costi sono stati enormi. L’orchestra ha trascorso otto anni in modalità “nomade”, suonando ovunque fosse possibile. Ma non tutti gli spazi sono sale da concerto: questo ha rappresentato una grande sfida, anche sotto il profilo acustico. D’altra parte, suonare in tanti luoghi diversi ci ha permesso di incontrare nuovi pubblici e stringere rapporti con varie comunità della città. Ora però avremo finalmente una casa vera: uno spazio dove provare, costruire il nostro suono, lavorare con continuità. Per l’orchestra sarà un sollievo enorme.
Concerto nel cantiere della Beethoven Orchester nella Beethovenhalle
La Großer Saal ha 1700 posti. Questo cambierà la vostra programmazione? Riempire una sala così grande a Bonn non è semplice.
Negli ultimi anni abbiamo avuto quasi sempre il tutto esaurito, certo facilitati dalle sale più piccole. Ma anche i concerti in programma fino alla fine della stagione sono quasi sold out. Gli abbonamenti sono aumentati in maniera significativa, probabilmente per la curiosità verso la nuova sala. È vero: riempire uno spazio così grande è una sfida. Ma credo che per mantenere il pubblico sia fondamentale restare autentici. Non vogliamo programmare solo i brani più popolari per attirare più persone possibile. Preferiamo costruire un rapporto di fiducia con il pubblico e convincerlo ad ascoltare anche musica nuova. Al tempo stesso vogliamo raggiungere nuovi pubblici e riportare con noi le persone incontrate negli spazi in cui abbiamo suonato negli ultimi otto anni. È una sfida, ma necessaria.
Portare il nome “Beethoven Orchester” è più un peso o un’opportunità?
È entrambe le cose: una responsabilità e un’enorme ispirazione. Molte orchestre nel mondo eseguono Beethoven magnificamente. Ma noi abbiamo la fortuna di lavorare nella sua città natale, un luogo dalla forte identità internazionale, eredità del periodo in cui Bonn era la capitale della Germania federale. Beethoven non incarna solo la grande musica, ma anche valori come diritti umani, europeismo, visione universale. Cerchiamo di essere ambasciatori di questo spirito, e di tradurlo anche nel nostro impegno verso la musica contemporanea e i compositori emergenti. Essere legati al suo nome significa non restare mai fermi: Beethoven credeva nella possibilità del cambiamento, e ci ricorda che anche noi dobbiamo evolvere.
Come si traduce questo impegno nella pratica?
Sperimentiamo: programmi sorprendenti, forme vicine al teatro, dialogo con il pubblico, coinvolgimento dei giovani. In breve, cerchiamo di andare oltre il concerto tradizionale per aprirci sempre di più alla città e a nuovi ascoltatori.
E dal punto di vista storico? La Beethoven Orchester ha una lunga tradizione…
Stiamo riscoprendo il repertorio della Hofkapelle, la cappella musicale della corte elettorale del XVIII secolo, alla quale la famiglia Beethoven fu profondamente legata a partire dal nonno Ludwig, che divenne Hofkapellmeister, il padre era tenore; e lo stesso Ludwig in gioventù fu secondo organista di corte e quindi violista in quell’orchestra. L’orchestra fu sciolta come la corte di Bonn con l’occupazione francese nel 1794 e Bonn rimase senza un ensemble orchestrale fisso fino alla fondazione della Beethoven Orchester nel 1907. Con l’Università di Vienna lavoriamo da anni alla ricostruzione del patrimonio musicale della Hofkapelle, che include anche manoscritti conservati alla Biblioteca Estense di Modena.
Il lavoro è solo archivistico o ha un risvolto musicale concreto?
Ha un risvolto molto concreto. Stiamo riportando alla luce partiture dimenticate per due secoli e rendendole di nuovo eseguibili. Molti compositori sono poco noti oggi – Andrea Lucchesi, Josef Reicha, Anton Hoffmeister, Christian Gottlob Neefe (uno dei primi maestri di Beethoven), Leopold Hofmann – ma recuperare le loro musiche ci aiuta a comprendere il mondo culturale e musicale in cui Beethoven crebbe. Abbiamo anche avviato una collana discografica, “Edition Hofkapelle”, con l’etichetta Dabringhaus&Grimm. I primi due CD sono già usciti, mentre stiamo lavorando al terzo, dedicato alle arie per il soprano Magdalena Willmann, all’epoca la “primadonna” dell’opera a Bonn.
Anton Reicha, Grande Overture in D Major
Beethoven Orchester Bonn, Dirk Kaftan
L’orchestra è attiva anche in ambito operistico. Quali sfide e quali opportunità comporta essere direttore musicale della Beethoven Orchester e anche dell’Oper Bonn?
È una sfida organizzativa perché stagione operistica e stagione sinfonica hanno esigenze diverse. A Bonn abbiamo trovato un equilibrio, anche se ogni anno bisogna ripartire da zero nella pianificazione. Ma l’opera offre molto all’orchestra: aumenta la flessibilità, la capacità di reagire, la profondità dell’ascolto. E i musicisti amano suonare in teatro. Sia in sala da concerto sia in teatro abbiamo una presenza di pubblico molto alta, il che ci rende molto orgogliosi.
Che consiglio darebbe ai giovani direttori che aspirano a guidare istituzioni complesse come quelle che lei guida?
La musica è la base: bisogna amarla e comprenderla profondamente. Ma quello a cui nessuna scuola prepara davvero sono gli aspetti non musicali: gestione, politica culturale, fundraising, dinamiche psicologiche. Sono le parti più difficili e più faticose del lavoro. Il mio consiglio è di fare presto esperienze concrete come assistenti o direttori ospiti, per capire se questo ruolo è davvero ciò che desiderano. Non c’è un manuale: ognuno troverà il proprio modo. Ma è indispensabile saper affrontare queste sfide, altrimenti questo mestiere rischia di non essere quello giusto.