Berio balla con Wayne
Intervista a Wayne McGregor sulla coreografia per Coro di Luciano Berio, l’omaggio della Biennale di Venezia al centenario del compositore, andato in scena al Teatro La Fenice il 6 e 7 dicembre
09 dicembre 2025 • 9 minuti di lettura
Il 6 e 7 dicembre, il Teatro La Fenice di Venezia ha ospitato la prima italiana di Coro il capolavoro di Luciano Berio per quaranta voci e strumenti, composto tra il 1974 e il 1976. Lo spettacolo, inserito nel ciclo dei Progetti Speciali dell’Archivio Storico della Biennale di Venezia, ha inteso celebrare il centenario del compositore con una inedita versione coreografata dal britannico Wayne McGregor.
Direttore artistico della sezione Danza della Biennale di Venezia dal 2021, il cinquantacinquenne McGregor è uno dei coreografi più influenti della danza contemporanea. Nel corso della sua carriera ha collaborato con compagnie di fama mondiale come il Balletto dell’Opera di Parigi, l’Alvin Ailey American Dance Theater e il New York City Ballet, dal 2006 è coreografo residente del Royal Ballet. Nella sua multiforme attività, McGregor ha lavorato anche nel campo del cinema, teatro, opera – risale allo scorso ottobre il suo allestimento al Norwegian National Opera and Ballet di Jocasta’s Line, un dittico formato da Oedipus Rex di Stravinskij e Antigone di Samy Moussa – oltre a spettacoli dal vivo su larga scala, come ABBA Voyage.
Vero e proprio compendio della maestria di Berio, Coro combina l’espressività umana con una scrittura orchestrale e corale sofisticata, che include testi di Pablo Neruda e canti popolari da tutto il mondo. La produzione veneziana, che per l’esecuzione musicale ha visto coinvolti quaranta cantanti del Coro della Cattedrale di Siena “Guido Chigi Saracini” e quaranta musicisti dell’Orchestra del Teatro La Fenice diretti da Koen Kessels, ha rappresentato un’autentica sfida per la trasposizione in danza, per la quale McGregor si è avvalso della collaborazione dei venti danzatori della Wayne McGregor Company affiancati dai migliori talenti del Biennale College Danza selezionati sotto la sua direzione artistica.
Per parlare di come le texture intricate di Coro, le atmosfere mutevoli e lo spirito collettivo abbiano influenzato il suo approccio coreografico e di come abbia risolto autentiche sfide poste da questa partitura, abbiamo incontrato Wayne McGregor poche ore prima del debutto della sua ultima creazione al Teatro La Fenice.
Coro è una composizione che intreccia voci e strumenti in un tessuto complesso e stratificato. Come la tua coreografia si rapporta a questa polifonia e la traduce in movimento?
Sono profondamente grato alla Fondazione Berio per aver reso possibile questo progetto. Coro è già di per sé un’opera completa, un mondo autonomo, ma ciò che mi ha spinto a coreografarlo è proprio la sua ricchezza polifonica. Berio crea un mosaico di voci umane e colori strumentali che si espandono e si contraggono, cambiano scala e riconfigurano continuamente lo spazio. La mia coreografia interagisce con questo trattando il movimento come un ulteriore strato di quel mosaico: i corpi seguono le costellazioni mutevoli della partitura, rispondendo ai cambi di volume, alle texture e alle relazioni spaziali. Piuttosto che illustrare la musica, cerco di far sì che i danzatori incarnino la polifonia — permettendo alla complessità della partitura di generare un contrappunto fisico e vivente sul palco.
Qual è la sfida più grande nello sviluppare una coreografia da Coro?
La sfida principale è che Coro è quasi “in-coreografabile”, intendo dire che resiste quasi a una coreografia tradizionale. La sua struttura non invita a una risposta di movimento convenzionale, quindi l’approccio deve essere necessariamente sperimentale. Berio ha già integrato una dimensione coreografica nel modo in cui cantanti e strumentisti condividono lo spazio, creando le proprie dinamiche sonore e spaziali. Il mio lavoro, quindi, non consiste nell’imporre passi alla musica, ma nel confrontarmi con volumi, texture e spazi mutevoli generati dalla partitura stessa.
Come le atmosfere mutevoli e i “microclimi” emotivi di Coro ispirano la tua coreografia?
Ciò che mi ispira di più in Coro è il suo continuo mutamento atmosferico: la partitura può sembrare un enorme muro sonoro e, un attimo dopo, una voce solista intima. Si muove tra violenza e trascendenza, densità e trasparenza, creando microclimi acustici distinti. La mia coreografia cerca equivalenti fisici a queste atmosfere in continuo cambiamento. Con musicisti e cantanti sul palco, spero che l’energia della musica possa attraversare i danzatori e irradiarsi verso il pubblico — quasi come un’onda nello spazio. Questa trasmissione dell’energia emotiva della partitura è al centro del lavoro.
Berio disse che “in Coro, sono tornato alla musica folk che, in modo esplicito, era già alla base dei miei Folk Songs e del Questo vuol dire che... In Coro, però, non ci sono citazioni o trasformazioni di canti popolari reali”. La dimensione folk è stata una delle fonti d’ispirazione per te?
Sì ma non nel senso tradizionale di motivi o ritmi folk. Ciò che colpisce in Coro è come Berio concepisce il “folk” come espressione umana condivisa. Piuttosto che usare melodie identificabili, crea uno spazio collettivo in cui le voci interagiscono, si sovrappongono e si ascoltano a vicenda. È una sorta di insieme ritualizzato, una forma distribuita di pensiero e sentimento che trascende ogni singola linea linguistica o musicale. Questo è particolarmente evidente nel trattamento del testo: le parole sono frammentate, stratificate, intrecciate tra diverse voci, così che il significato nasce meno dalla lingua e più dall’energia musicale del parlato. L’ascoltatore viene catturato da un’esperienza sensoriale e quasi fisica — le parole si percepiscono dentro il corpo prima di essere comprese. Tale dimensione collettiva e corporea ispira la mia coreografia. Non si tratta di richiamare passi folk, ma di catturare la sensazione di un gruppo che si muove come organismo condiviso, generando un’espressione collettiva che riflette la molteplicità “collagistica” della partitura di Berio.
Come la struttura della partitura ha influenzato l’organizzazione dei corpi sul palco?
Quando affronto una partitura complessa, inizio studiandone l’anatomia. Per Coro ho collaborato strettamente con il direttore Koen Kessels, con il quale ho realizzato già molti progetti, per capire come Berio costruisce e frammenta il materiale: dove le voci convergono, dove si disperdono, come alternano densità e chiarezza. La mia coreografia non cerca di imitare le ispirazioni di Berio; la partitura stessa è l’ispirazione. Ho tradotto quei comportamenti musicali nell’organizzazione dei corpi: momenti di movimento spesso e stratificato; aperture improvvise dove emerge una singola “voce” fisica; gruppi che si coagulano o si disperdono. In questo senso, la coreografia diventa un equivalente fisico della rigorosità e fluidità della struttura della partitura, piuttosto che un’illustrazione letterale.
C’è qualcosa nel carattere musicale di Coro — energia, struttura, senso di spontaneità — che ti colpisce particolarmente?
Amo il senso di spontaneità di Coro. Pur essendo meticolosamente composta, la musica sembra scoprirsi momento per momento. Questa qualità emergente ho cercato di portarla nella coreografia. Piuttosto che affidarmi a schemi riconoscibili, miro a un movimento volatile, imprevedibile, come se si generasse continuamente in tempo reale. Spero che i danzatori incarnino la stessa energia viva e auto-sviluppante che rende Coro così avvincente.
Lo stesso approccio vale per cantanti e musicisti sul palco?
Non nello stesso modo. In conversazioni con Talia Pecker Berio e la Fondazione Berio, è emerso che Coro ha requisiti scenici molto precisi: il posizionamento dei cantanti e degli strumentisti — altezze, posti, persino dove siedono — è fissato nella partitura e non può essere modificato. Ciò significa che l’interazione diretta con i danzatori non è possibile.
Ovviamente, con maggiore libertà avrei esplorato altri tipi di scambio, ma le restrizioni possono essere produttive creativamente. In questo caso, la limitazione preserva l’integrità dell’opera: la “onda” di cui parlavo — l’intelligenza musicale che attraversa i danzatori e arriva al pubblico — non richiede interazione fisica. Coro possiede già il suo potere, e la coreografia risponde attorno ad esso, senza intervenire.
Cosa ti ha motivato ad pensare a una coreografia per Coro, e qual era l’auspicio nei confronti dell’esperienza del pubblico?
Quando mi è stato proposto di realizzare questa produzione, ero curioso di vedere come corpi in movimento potessero articolare fisicamente alcuni temi centrali della musica. Volevo esplorare come la coreografia potesse bilanciare o completare la partitura e come potesse influenzare la percezione del pubblico. Non suggerisco che renda l’esperienza “migliore”, ma speravo offrisse un modo diverso e complementare di vivere Coro.
Coro è stato scritto negli anni ’70 come risposta a tensioni politiche e sociali, con testi del cileno Pablo Neruda, che Berio descrive come “praticamente assassinato, non fisicamente, ma spiritualmente: gli hanno spezzato il cuore”. Come risuona oggi il contesto storico della partitura, e quali aspetti della sua musica appaiono più contemporanei?
Berio compose Coro in un periodo di tensioni politiche, e il suo suono frammentato e talvolta brutale riflette quell’angoscia. Questa intensità risuona ancora oggi: la partitura evoca isolamento, conflitto, forze che lottano contro poteri più grandi — temi molto attuali nel nostro contesto sociopolitico. Vedo inoltre Coro come una registrazione del pensiero di Berio: le sue scelte, il suo approccio al testo e al suono. Questa combinazione di specificità storica e di espressione umana universale rende l’opera al tempo stesso radicata nel suo periodo e straordinariamente contemporanea.
Questo spettacolo nasce insolitamente come progetto speciale dell’Archivio Storico della Artic Contemporanee della Biennale. Quale ruolo hanno avuto (se un ruolo hanno avuto) i materiali d’archivio come programmi, recensioni o documenti vari nel tuo processo creativo?
I materiali d’archivio non hanno avuto un ruolo diretto nella mia creazione. Ciò a cui ho risposto è stata la partitura stessa, che considero un archivio vivo — un artefatto di pensiero da interpretare e rendere vivo in modi differenti. I musicisti lo fanno eseguendola, e io ho cercato di estendere quel processo attraverso la danza. Naturalmente, sapere che Coro era stato eseguito per la prima volta alla Biennale nel 1976 ha aggiunto un senso di contesto storico, ma fondamentalmente l’archivio è un “filo d’oro” — un legame con ciò che è possibile nel presente — mentre la coreografia si concentra sulla partitura come entità fisica e corporea, con la sua struttura, il suo flusso e la sua vita.
Il Teatro La Fenice, che ha ospitato lo spettacolo, è un luogo ricco di storia e simbolo di una certa tradizione. Come hai concepito il rapporto tra lo spazio teatrale e i corpi dei danzatori in una composizione così particolare?
Quel teatro è speciale per molti motivi. Con 80 musicisti fra coristi e orchestrali, un direttore e un pianista sul palco, c’è già una presenza visiva e sonora enorme. Per creare un dialogo con i danzatori, abbiamo rialzato il palco dell’orchestra in modo che potessero esibirsi sia lì sia sul palco, conferendo allo spazio una qualità simile a un palco a penisola. Dal punto di vista visivo, abbiamo aggiunto un unico elemento d’impatto: un pavimento rosso intenso, mantenendo un’estetica minimale ma potente che dialoga con la musica. Lavorare con la mia compagnia e i giovani danzatori del Biennale College negli ultimi cinque anni ha reso l’esperienza ancora più significativa, dando loro l’opportunità straordinaria di esibirsi su un’opera iconica in un teatro storico.
Cosa auspichi il pubblico veneziano si porti a casa dopo aver assistito alla tua interpretazione di Coro?
Spero che il pubblico veneziano si avvicini a Coro con curiosità e apertura. L’opera può essere provocatoria — sfida modi familiari di ascoltare e guardare, invitando a confrontarsi con suono, testo e movimento in modi inaspettati. Tuttavia, all’interno di questa sfida si trova una bellezza e una trascendenza straordinarie. Vivere l’opera, sia musicalmente sia attraverso la coreografia, invita lo spettatore ad attivare parti di sé spesso inespresse, a confrontarsi con abitudini o pregiudizi radicati e a restare ricettivo all’imprevisto. Anche se musica o danza risultano insolite, spero che il pubblico si lasci muovere, sorprendere e, infine, arricchire. Soprattutto, voglio che portino con sé il senso duraturo della potenza di Coro, della sua unicità e della straordinaria arte che lo caratterizza.
Coro è ancora controverso mezzo secolo dopo?
Sì, penso che Coro rimanga controverso, forse ancora di più nell’era attuale dominata dall’intelligenza artificiale, nella quale la musica segue spesso schemi familiari e la popolarità arriva rapidamente. La composizione di Berio è l’opposto: è insolita, sfidante e resiste a un riconoscimento immediato, costringendo l’ascoltatore a confrontarsi con i propri pregiudizi e abitudini. Per chi è disposto a entrarci, l’esperienza è profondamente gratificante. Anche i giovani danzatori, incontrando la partitura per la prima volta, hanno avuto bisogno di tempo per adattarsi. Coro continua a provocare, rompere abitudini e spingere ai confini della percezione — e questo, credo, è essenziale. La sua potenza provocatoria è ciò che lo mantiene vivo e rilevante ancora oggi.