Angelo Gilardino, di virtuosità e trascendenza

È morto a 80 anni Angelo Gilardino, innovatore della chitarra classica. Lo ricordiamo con un'intervista di qualche anno fa

Angelo Gilardino
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Il 27 novembre 2021 Angelo Gilardino aveva festeggiato l’ottantesimo compleanno nel suo paese d’origine, Asigliano Vercellese. Come ricordato con tenera commozione dal chitarrista e compositore, prima che iniziasse la cerimonia, era stato deposto nelle sue «incredule mani» «un volume antologico stampato ad hoc e contenente parecchie mie composizioni per chitarra e, al traino, un doppio CD con l’esecuzione dei brani dell’antologia affidate a chitarristi al cui prestigio non aggiungerei nulla dicendo che sono tra i più famosi del momento: lo sono, è risaputo da tutti». Una sorpresa che lo lascia «ammutolito, sopraffatto, e, nel tentativo di dire qualcosa, farfugliante», una sorpresa che basta per tutta la vita: «la mia» – scrive Gilardino, ed è ben più d’un presagio – «l’ho avuta, non ne aspetto altre; anzi, in tutta sincerità dichiaro che non ne voglio più, perché in tutto ci dev’essere una misura, e io sento che la mia è stata colmata».

Angelo Gilardino

Angelo Gilardino è morto il 14 gennaio del 2022. Di lui «non resterà in noi solo un bordone, un suono ostinato che sostiene i nostri pensieri, accompagna le azioni quotidiane colorandole di un lieve struggimento». Da lui si dispiegheranno «polifonie e contrappunti a disegnare fantasticherie sopra le macerie del mondo, a trasformare i dolori in amare, incorporee dolcezze». Si seguiranno «i gesti essenziali, le parole esatte, i suoni profondi di cui sei stato scrupoloso scultore». Ci permettiamo di usare alcune delle parole pronunciate durante l’omelia funebre da un commosso Gianni Nuti, allievo di Gilardino, interprete e studioso della sua opera, oggi sindaco di Aosta: le immaginiamo traslate in musica, nelle note del Concerto di Asigliano per Contrabbasso e sette strumenti, eseguito in prima assoluta, l’8 dicembre 2021, al Palladium di Roma, con Massimo Ceccarelli al contrabbasso e l’Ensemble Roma Tre Orchestra diretta da Sieva Borzak.

Quando, nel 1981, inizia a comporre il primo dei cinque cicli degli Studi di Virtuosità e Trascendenza – «pietre miliari del nuovo repertorio della chitarra», come li ha definiti John W. Duarte – Angelo Gilardino ha esattamente quarant’anni. Nell’autunno, il chitarrista, compositore e didatta ha deciso di abbandonare l’attività concertistica, che pure gli aveva regalato non poche soddisfazioni e di dedicarsi esclusivamente all’insegnamento e alla composizione, abbandonata da molti anni nonostante inizi molto promettenti.

Il primo esercizio di composizione, Canzone Notturna, del 1968, ebbe la fortuna di incappare in una serie di correzioni d’autore apportate dal lapis di Mario Castelnuovo-Tedesco. Il compositore torinese conosce Angelo Gilardino due anni prima, nel 1966, quando la dirigenza delle Edizioni Musicali Bèrben di Ancona, di proprietà della famiglia Boccosi, passa nelle mani del giovane Fabio, che decide di connotare la propria attività editoriale, principalmente dedicata a musiche per chitarra, con una nuova collezione di opere novecentesche.

Inizierà così il ciclo delle pubblicazioni a cura di Angelo Gilardino che, in quarant’anni, ha reso possibile la scoperta di nuovi brani per chitarra e il recupero filologico di musiche dimenticate, risalenti per lo più all’inizio del Novecento. A coronamento di questa brillante carriera parallela di editore, vi è l’autorizzazione, ottenuta nel 2001 dalla Fondazione Segovia di Linares (di cui è direttore artistico dal giugno del 1997 al dicembre del 2001), a togliere i sigilli alle cartelle contenenti i manoscritti musicali custoditi da Andrés Segovia. Gilardino scopre una rilevante quantità di composizioni scritte dal 1919 in poi per il grande chitarrista da compositori francesi, spagnoli e britannici, fino a quel momento rimaste inedite e credute perse: decide così di inaugurare un Archivio Andrés Segovia, lavoro lungo e impegnativo che sarà completato nel 2006 con la pubblicazione degli ultimi lavori reperiti.

Circolata dapprima sul supporto di cinque dischi allegati, tra il 2005 e il 2007, alla rivista Seicorde, l’integrale dei sessanta Studi di Virtuosità e Trascendenza di Angelo Gilardino era già da tempo assurta a caposaldo della letteratura chitarristica contemporanea, nella magistrale esecuzione di Cristiano Porqueddu, allievo e interprete del maestro che, da sempre lettore fedele della sua pagina, si è visto commissionare nel 2007 il Concerto di Oliena per chitarra e orchestra. Lontani tanto dal tonalismo – del quale, pure, come scrive Nuti, sembra rivivere il fantasma in riflessi e risonanze che creano uno stato di mobilità fugace, come in balia di un costante processo modulante – quanto da dissonanza e serialità (quest’ultima utilizzata in maniera episodica), gli Studi espongono e sviluppano cellule tematiche che prevedono gesti in sequenza molto complessi, ma disposti nello spazio con eleganza e scorrevolezza. Perché virtuosità, per il chitarrista-compositore vercellese, non fa rima con virtuosismo, quest’ultimo essendo una capacità dimostrativa esteriore, laddove la prima è l'unica via percorribile per arrivare al trascendente – inteso come superamento della materia e del gesto stesso che la domina: una mano che percuote una corda.  

In occasione della riedizione dei cinque cicli degli Studi di Virtuosità e Trascendenza, distribuiti dall’etichetta olandese Brilliant nel 2009, avevamo contattato il chitarrista e compositore per un’intervista, che proponiamo ora.

Studi di Virtuosità e Trascendenza. Anzitutto: perché virtuosità e non virtuosismo? E poi: è esclusivamente ripercorrendo i passi del virtuoso che è possibile accedere al trascendente? 

«Nell’accezione che intendevo dare alla parola nel mio titolo, virtuosità è uno stato in essere, rispetto al quale il virtuosismo è da considerare invece soltanto come una capacità dimostrativa esteriore. Io credo che chi induce i suoi ascoltatori a pensare che è molto bravo, non lo sia abbastanza: il virtuoso che si rivela come tale si trova in una condizione inferiore a quella di chi, approdato alla virtuosità, la trascende e ne annulla ogni manifestazione evidente: in questo senso, è da intendere la trascendenza, cioè come un superamento della materia e dello stesso gesto che la domina». 

«Io credo che chi induce i suoi ascoltatori a pensare che è molto bravo, non lo sia abbastanza».

Come si è arrivati alla pubblicazione e alla distribuzione, grazie all’olandese Brilliant Classics dell’integrale degli Studi, che circolavano già da diverso tempo in registrazioni più o meno ufficiali? 

«Non lo so, io mi sono limitato a scrivere gli Studi e tutto il resto lo hanno fatto e lo stanno facendo altri: l'editore, gli interpreti, le case discografiche. Prima della pubblicazione da parte dell’etichetta olandese, i cinque CD con le incisioni di Cristiano Porqueddu erano stati pubblicati separatamente dalla rivista di chitarra Seicorde, quindi in Italia erano già piuttosto conosciuti. Vorrei aggiungere che un compositore, secondo me, dovrebbe limitarsi a non chiudere la sua musica nel cassetto, e non dovrebbe spingersi oltre: una volta che ha pubblicato i suoi brani, ha esaurito il suo compito, e se qualcosa deve accadere, che accada per iniziativa degli interpreti, dei critici e degli operatori musicali. Tra i modelli estremi, Adrian Leverkühn da una parte, e i mille bancarellari della propria musica dall’altra, c’è una posizione che mi sembra ideale: quella della decenza». 

Cristiano Porqueddu, tra i suoi allievi più dotati, è l’interprete dell’integrale degli Studi. Come si è arrivati a lui? È soddisfatto della sua lettura? 

«È stata una sua iniziativa, della cui audacia mi sono stupito e continuo a stupirmi. Sì, sono soddisfatto della sua lettura, è rispettosa di quello che ho scritto e personale al tempo stesso, perché segue una strada interpretativa del tutto sua. La sua registrazione dei miei Studi è iniziata dopo che io avevo terminato di impartirgli lezioni di interpretazione musicale, e tali lezioni si sono comunque svolte su musiche di altri autori. In generale, devo dire che gli interpreti giovani, quelli che oggi hanno tra i 25 e i 40 anni, suonano molto bene, e io devo ritenermi fortunato per l’interesse che mostrano per i miei lavori: a essere esplicito, non me lo aspettavo, ed ero pronto a passare a miglior vita, a suo tempo, senza aver destato l’interesse degli interpreti. Mentre l’atteggiamento dei miei coetanei e della generazione successiva alla mia ha confermato tale aspettativa, quello dei giovani ha inaspettatamente capovolto la situazione, e oggi gli interpreti delle mie opere si contano a centinaia. Raramente hanno più di 40 anni». 

Una gran parte degli Studi di Virtuosità e Trascendenza hanno un destinatario. Molti sono “Omaggi” a compositori che lei ha particolarmente amato, ma una parte consistente di essi è invece dedicato a pittori e scrittori. Secondo Gianni Nuti, studioso e interprete della sua opera, nel suo caso si tratterebbe di omaggio referenziale, piuttosto che mimetico: il suo scopo, cioè, sarebbe quello di evocare la poetica dell'artista citato collocandolo nella propria sfera d'azione, piuttosto che di riprodurre con sapienza artigianale lo stile dell’autore a cui si rivolge. Nello scegliere i testi poetici che animavano il suo teatro musicale, Luigi Nono, il cui interesse, pure, si dirigeva verso scrittori a lei cari (García Lorca, Neruda) si lasciava guidare da un ideale di poesia dalle forti connotazioni etico-politiche, una poesia che era riflesso di un modo di leggere e conoscere la realtà piuttosto che espressione di tecnica compositiva. Cosa la guida nello scegliere un autore a cui dedicare un suo Studio?

«Mi sento molto lontano dalle motivazioni dei compositori dell’avanguardia postweberniana del dopoguerra, e non ho mai pensato che l’arte possa influenzare la realtà sociale e politica contemporanea: questo è un vecchio cliché dell’estetica marxista e mi sembra caritatevole, al riguardo, evitare ogni commento. I miei omaggi sono atti poetici rivolti a “mondi” che mi hanno influenzato sul piano, per l’appunto, poetico: nient’altro».   

Le numerose dediche ai pittori mi hanno fatto pensare a Feldman, con le dovute differenze. Nel caso dei suoi “Omaggi” agli esponenti dell’espressionismo astratto non si trattava di stabilire paralleli tra colore e timbro, disegno e melodia, forma e ritmo o prospettiva e armonia, ma di concentrarsi sulle attitudini complessive del pittore: il gesto, il temperamento artistico, il senso della forma e del colore, lo scarso interesse per questioni teoriche, la capacità di mantenere intatto uno stato d’animo per tutto il tempo necessario al compiersi dell’atto creativo – tutto ciò, insomma, di cui il compositore non era riuscito a trovare un equivalente in musica. Come nasce il suo amore per le arti figurative e che nessi legano l’universo del compositore a quello del pittore? 

«A dire il vero non lo so: non ho idea di come una composizione musicale possa assomigliare a un dipinto o presentare affinità poetiche con il medesimo. Per quanto riguarda la mia musica ispirata alla pittura, mi sono mosso su un’onda emotiva sollevata dall’osservazione di certi quadri. Però non saprei dire specificamente come questo slancio emotivo abbia dato inizio alla costruzione di un brano di musica e, se qualcuno affermasse che si è trattato di due cose distinte, che si sono incontrate soltanto in un titolo e in un sottotitolo, cioè in un’area puramente letteraria, non avrei argomenti per controbattere. Le osservazioni che ha formulato al riguardo Gianni Nuti, nel suo libro sui miei Studi, mi sembrano tuttavia molto forti».   

Capriccio Sopra la Lontananza è dedicato a Mario Castelnuovo-Tedesco, suo maestro e amico. Vuole delinearci un profilo di questo compositore in base ai suoi ricordi personali? Cosa le ha insegnato, nello specifico, per quanto riguarda la musica per chitarra? 

«Non ho ricevuto lezioni di composizione da Mario Castelnuovo-Tedesco, salvo le correzioni che egli apportò al mio primo lavoro, Canzone notturna. Mi diede però alcuni consigli che sono stati più importanti delle lezioni “tecniche”. Ad esempio, fu lui a dirmi di concentrarmi sulla composizione, nella quale reputava che io avessi qualcosa da dire. Riteneva cioè che io potessi riunire i valori compositivi astratti e formali e quelli specificamente idiomatici (dei quali lui, ad esempio, non aveva il controllo, non conoscendo la chitarra direttamente) in un’unità equilibrata. Quando mi disse tutto ciò, io avevo 25 anni e non mi sentivo all’altezza della situazione, ma una quindicina di anni dopo, quando la mia visione della musica e il mio modo di pensare l’idioma chitarristico furono consolidati, credetti che fosse giunto il momento di abbandonare il concertismo e di dedicarmi alla composizione, con qualche seria probabilità di realizzare quell’unità che lui aveva intravisto. Lui era stato un compositore precoce, e non si capacitava di come, a 25 anni, io potessi sentirmi immaturo, ma lo ero, e penso di aver fatto bene a “studiare” la chitarra per altri 15 anni, prima di avventurarmi nella composizione. Nel frattempo, ho potuto leggere e suonare molta musica scritta da altri compositori, e quando ho incominciato, tra i rischi che sapevo di correre, non c’era quello di riscrivere cose già scritte prima, o di fare il verso a Villa-Lobos»

Ancora riguardo a questo Studio, e in particolare all’episodio centrale in cui prevale un segmento melodico modale in doppie ottave: alcuni interpreti hanno colto reminiscenze di "Wish You Were Here” dei Pink Floyd che, si racconta, lei usava ascoltare in un mangianastri portatile prima di presentarsi in pubblico per eseguire i suoi concerti negli anni Settanta. È stato questo il suo unico approccio con il mondo del rock? 

«Fino ad allora, sì. Successivamente, cioè a partire dagli anni Novanta, alcune rockstar si sono interessate a qualche mio pezzo, e mi hanno fatto giungere parole di apprezzamento. Le ho prese sul serio, perché venivano da persone dotate di grande talento musicale, anche se speso in un genere che mi è sconosciuto: infatti, io non conosco, se non per qualche audizione superficiale, il mondo del rock. Devo però dire che i pochi personaggi con i quali ho avuto contatti occasionali hanno dimostrato una capacità di comprensione musicale che assai raramente si incontra nelle classi dei nostri conservatori». 

Angelo Gilardino, Mario Castelnuovo-Tedesco, ma anche Sylvano Bussotti e Franco Donatoni: tutti autori che si sono dedicati a composizioni per voce e chitarra, una combinazione strumentale tipicamente ispanica che è stata rapidamente (e voracemente) ingurgitata, digerita (e probabilmente già espulsa) dalla musica popular. Pensa ci sia ancora spazio per questo tipo di scrittura nel repertorio classico? 

«Sì, si può scrivere ancora molta musica per voce e chitarra: è un campo relativamente poco esplorato, e secondo me apertissimo». 

«Sì, si può scrivere ancora molta musica per voce e chitarra: è un campo relativamente poco esplorato, e secondo me apertissimo». 

Negli ultimi anni la chitarra ha subito, come protagonista di repertorio classico, numerose metamorfosi, in uno spettro di posizioni estetiche che sembra avere come estremi da un lato l'assoluta purezza della chitarra classica di Tore Takemitsu e dall'altro la trasfigurazione della chitarra elettrica di Hugues Dufourt, nei lavori del quale è perfino difficile riconoscere, all’ascolto, lo strumento. Lei in che posizione crede di poter situare i propri lavori? 

«Decisamente nell’area classica. Alcuni virtuosi della chitarra elettrica mi hanno invitato a scrivere qualcosa per loro, ma finora non me la sono sentita. Non escludo di farlo in futuro». 

Alcuni compositori delle ultime generazioni – mi vengono in mente Tristan Murail, Dai Fujikura, Ulrich Krieger e Fausto Romitelli – hanno effettivamente tentato di integrare il suono della chitarra elettrica (chitarra rock, come la chiama il giapponese) all’interno di quello classico-sinfonico. È a conoscenza di questi tentativi? Cosa ne pensa? 

«Penso che la chitarra elettrica, nelle mani di orchestratori raffinati, possa fare prodigi. Io credo che un Puccini o un Ravel non se la sarebbero lasciata scappare». 

La sua musica prende le distanze dal tonalismo e dall'armonia classica, ma sembra equidistante anche da ogni forma di iconoclastia: in un’intervista ha dichiarato che «in tempi in cui governava la polizia postweberniana» questa non l’avrebbe giustiziato solo perché scriveva musica per chitarra e quindi non dava nell’occhio. Quali sono le sue posizioni riguardo a questioni che probabilmente hanno fatto il loro tempo? 

«Potremmo salutare con un senso di liberazione il tramonto delle ideologie musicali, se questo non si accompagnasse a un penoso deterioramento del gusto degli ascoltatori. Questi hanno sacrosante ragioni per rifiutare la musica che, negli anni darmstadtiani, si proponeva di negare loro i piaceri gastronomici dell’ascolto, ma se le scelte che fanno seguito a tali rifiuti sono quelle che si appagano nell’ascolto delle crasse banalità oggi circolanti, allora bisogna ammettere che la purga adorniana ha sortito i suoi effetti, anche se in modo paradossale».  

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