La musicologia ai tempi dei social

Dalla carta a Internet

MB

24 dicembre 2025 • 4 minuti di lettura

Giuseppe Verdi
Giuseppe Verdi

Il caso vuole che io mi trovi oggi a insegnare nella medesima istituzione universitaria in cui quarant’anni fa ero studente, con la possibilità dunque di uno sguardo storico privilegiato. Parlo del corso di laurea in Discipline delle Arti, della Musica e dello Spettacolo (D.A.M.S.) di Bologna; ma le osservazioni non sarebbero diverse per altri corsi italiani universitari nei quali si tratta (anche) di musica.

Sul piano tecnico, la differenza più tangibile fra oggi e allora è quella discendente dalla riforma universitaria del 1999 che, recuperando modelli europei, sostituì l’unico corso di laurea quadriennale con due percorsi in successione, rispettivamente triennale e biennale. I docenti universitari sono dunque passati a insegnare due materie diverse nei due livelli di studio, e gli studenti a scegliere due volte nella loro carriera a quale corso iscriversi, con anche casi di nette deviazioni di tragitto (si può accedere a un biennio di specializzazione in musicologia dopo un triennio di biologia; e le conseguenze sono facilmente immaginabili). S’aggiunga al panorama formativo il dottorato di ricerca, che proprio 40 anni fa nasceva come preparazione elitaria alla carriera accademica, ma che si trova oggi declassato a terzo livello di studio, con numeri di frequentanti ben più grandi, che l’accademia non potrà mai assorbire.

Se passiamo dalla forma ai contenuti, l’ampliamento dell’offerta formativa corrisponde spesso a un impoverimento culturale. I corsi di laurea si sono moltiplicati, sulla scia delle nuove tecnologie e di nuove prospettive professionali; le materie di studio all’interno dei singoli corsi hanno fatto a gara nel darsi denominazioni le più innovative e fantasiose; ma tutto questo ha portato a una parcellizzazione del sapere: insegnamenti ristretti ormai a 4 o 5 settimane di lezione affrontano necessariamente solo microtematiche (possibilmente di valenza contemporanea), mentre va a perdersi lo sguardo d’insieme (con impostazione storica).

In ambito musicale, sono oggi praticamente spariti dall’università – non solo italiana – il Medioevo e il Rinascimento (sì, proprio quel Rinascimento in cui l’Italia fu grande in tutte le arti), rendendo così impossibile suscitare l’interesse per il passato nei giovani studiosi, se non hanno l’occasione di entrarvi in contatto. Il rischio è che si torni presto a perdere quel sapere sull’antichità musicale faticosamente recuperato dall’oblio negli ultimi 100 anni.

Ma vorrei dire che la stessa musica – in quanto musica – è sempre più assente dagli studi accademici, dai convegni musicologici e dalle riviste internazionali che ne sono lo specchio: l’interesse per la musica è infatti ormai preferibilmente limitato al rapporto con qualcos’altro (musica e politica, filosofia, religione, sesso, cibo, ambiente, ecc.), mettendo in terzo piano l’aspetto tecnico-compositivo. È oggi facile conseguire una laurea musicologica – ma anche un dottorato di ricerca e fin una cattedra universitaria – pur incespicando nella grammatica della musica, come se uno studente di lettere classiche potesse permettersi di non conoscere la grammatica latina e greca. L’alunno decisamente più preparato è adesso quello del conservatorio, che studia due strumenti, che ha seguito un intero percorso triennale di storia della musica (dall’antichità alla contemporaneità) e che – dopo la riforma dell’istituzione – passa anche attraverso le sollecitazioni musicologiche fino a poco tempo fa caratterizzanti la sola formazione universitaria.

Entrambe le tipologie di studente soffrono comunque di un deficit che caratterizza la Generazione Z in tutti i campi. Troncato ogni rapporto con il supporto cartaceo concreto (libro, giornale, documento, ecc.), risulta minata alla base ogni consapevolezza sul concetto di “fonte” (da cui la proliferazione di fake news e l’incapacità di valutarle e confutarle). Può sembrare poco credibile, per chi non tocca con mano il fenomeno quotidianamente, ma si è davvero persa la capacità di distinguere gerarchicamente fra il contenitore generalista che veicola l’informazione (internet) e le singole autorialità che stanno dietro ognuna di tali informazioni: l’autore di un libro di cui sono riprodotte on line alcune pagine a stampa, di un articolo scientifico disponibile in open access, delle parole postate anonimamente su un blog di tendenza. Tutto viene percepito allo stesso livello di valore e attendibilità, frutto della mente di un Grande Fratello onnisciente che ci parla attraverso uno schermo.

La fatica fisica, organizzativa, economica di procurarsi una “fonte” (un libro, una partitura, un disco, ecc.) ha lasciato il posto alla disponibilità immediata del tutto, che all’atto pratico significa il possesso di niente. Prima capitava già di sentir dire all’esame che una certa informazione proveniva da un libro verde (senza alcuna contezza sul suo autore, ma in qualche modo ancora identificabile); ora la fonte d’informazione è mamma internet, al cui capezzolo ci si alimenta senza neppur sapere cosa si sta assumendo. Pure questo articolo, una volta letto, non sarà identificato come un contenuto (anonimo) del Giornale della musica, ma semplicemente come un “era in internet”.