Vossa Jazz, nuova tradizione norvegese

Il festival di Voss alla cinquantaduesima edizione cambia direzione artistica

Vossa
Foto di Luca Vitali
Recensione
jazz
Voss, Norvegia
Vossa Jazz 2025
11 Aprile 2025 - 13 Aprile 2025

La cinquantaduesima edizione del festival norvegese Vossa Jazz si apre all’insegna del cambiamento. Dopo tredici anni alla direzione artistica, Trude Storheim ha lasciato il timone del festival a Roger Urhaug, che ha debuttato alla guida della manifestazione con il nuovo team produttivo composto da Silje S. Halstensen e Kristin Glück-Teigland. 

– Leggi anche: Vossajazz, cinquant’anni e non sentirli

Il passaggio di consegne – che segue la breve direzione transitoria di Laila Melkevoll nel 2024 – rappresenta un punto di discontinuità rispetto al lungo periodo inaugurato negli anni Novanta con Lars Mossefin. Il nuovo assetto gestionale, accanto a una programmazione che punta esplicitamente a coniugare qualità musicale e maggiore accessibilità, sembra voler intercettare una platea più ampia, senza tuttavia rinunciare all’identità profonda del festival, che affonda le sue radici nella tradizione folk.

Concerto d’apertura: Inazuma accende la scena

L’atteso concerto del trio di Maria Kannegaard, previsto come apertura del festival, è stato annullato a causa di un’improvvisa indisposizione della pianista. Una defezione importante, che rischiava di compromettere l’equilibrio della serata inaugurale. In sua sostituzione è salito sul palco un ensemble inedito, riunito per l’occasione sotto il nome di Inazuma — formazione composta da Ole Morten Vågan al contrabbasso e Thomas Strønen alla batteria (entrambi membri del trio originario), affiancati da Anja Lauvdal al pianoforte, Ståle Storløkken alle tastiere e Nils Petter Molvær alla tromba.

Quella che poteva sembrare una soluzione di ripiego si è rivelata invece uno dei momenti di maggiore intensità artistica dell’intero festival. La musica di Kannegaard è rimasta come spirito guida, con tre o quattro brani come canovaccio – tra cui Drifting Down the Nile e soprattutto Din ingen – ma il quintetto ha saputo costruire un linguaggio personale e coeso, mantenendo una propria autonomia espressiva.
Il set ha preso forma attorno a una narrazione sonora stratificata e fluida, in cui il lirismo rarefatto della tromba di Molvær si è intrecciato con le architetture timbriche di Ståle Storløkken (Supersilent, Elephant9) e Anja Lauvdal (Moskus, Skadedyr), mentre la sezione ritmica, solida e dinamica come sempre, ha sostenuto le esplorazioni con naturalezza e precisione. Particolarmente riuscita Din ingen, introdotta con essenzialità al piano da Anja Lauvdal e sviluppata in un crescendo emotivo che ha coinvolto tutta la band.

Il repertorio ha incluso, oltre ai citati brani di Kannegaard, anche un paio di composizioni di Ståle Storløkken e una sorprendente rilettura della ballata dei Radiohead, "True Love Waits", aperta con grande poesia da Vågan e proseguita in un intenso scambio con Molvær.

Questa inaspettata Inazuma ha dimostrato un interplay ritmico di alto livello e una visione sonora condivisa, trasformando un imprevisto in una delle aperture più coinvolgenti e riuscite delle ultime edizioni del festival.

Inazuma
Foto di Luca Vitali

La Commissione: Sense, Organ, Motion

Con Sense, Organ, Motion, Kjetil Møster ha firmato un Tingingsverk di grande libertà, intensità e umanità. Lontano da ogni impianto concettuale preconfezionato, l’opera si è sviluppata in cinque movimenti attraversati da blues, free, folk, derive elettroniche e frammenti di “techno acustica”, in una forma aperta ma sorprendentemente coesa. “This Is Not A Concept!”, declamava con ironia Sofia Jernberg in uno dei testi più taglienti, sottolineando la volontà di Møster di prendere le distanze da ogni costruzione preconfezionata: non una narrazione a tesi, ma un atto musicale sincero, terreno e condiviso.

Uno degli aspetti più riusciti dell’opera è stata proprio il lavoro preliminare di Møster nel selezionare un gruppo di autentici fuoriclasse – dalla stessa Jernberg a Benedicte Maurseth, da Hans Magnus Ryan a Eivind Lønning, Anja Lauvdal, Gard Nilssen – e nel comporre una partitura aperta capace di valorizzarne le qualità individuali, in solo e in combinazioni sempre diverse. La struttura, volutamente fluida, ha lasciato spazio a momenti di esposizione solistica dal carattere quasi teatrale, a dialoghi serrati in duo e a sezioni d’ensemble dal grande respiro timbrico.

Sin dalle prime battute, con un’esposizione frammentata al sax e piccoli gesti percussivi, l’opera si è presentata come un corpo vivo in trasformazione. Un groove spezzato condotto da Ole Morten Vågan e Nilssen ha introdotto la prima vera sezione collettiva, interrotta da brevi lampi melodici di Anja Lauvdal e da interventi vocali improvvisi di Sofia Jernberg. La stessa Jernberg, in dialogo con l’hardingfele (il violino di Hardanger) di Benedicte Maurseth, ha dato vita a un momento di altissima tensione emotiva: un canto rituale che si è trasformato in una marcia folk straniante, lentamente assorbita da tutto l’ensemble.

Ci sono stati momenti toccanti, che grazie alla voce spezzata e dolente di Hans Magnus Ryan – aka Snah dei Motorpsycho – hanno evocato atmosfere alla Robert Wyatt, mentre Lønning alla tromba e Møster al sax intessevano nuove trame sopra un tappeto rarefatto di tastiere ed elettronica.

Sul finire, Møster ha lasciato la direzione per immergersi pienamente nel suono, affiancando Gard Nilssen in un dialogo percussivo di grande intensità fisica, quasi liberatorio, che ha fatto da contrappunto a un’ultima sezione vocale collettiva guidata da Jernberg e Lønning. Un lavoro profondo, vitale, mai compiaciuto, che ha dato voce a ogni singolo musicista senza perdere il respiro collettivo. Un’opera che, a pieno titolo, si iscrive nella galleria dei Tingingsverk più riusciti della storia del Vossa Jazz.

Foto di Luca Vitali

Nils Økland Ensemble: il cuore ancestrale del festival

Tra i concerti più intensi di questa edizione, quello dell’ensemble di Nils Økland all’Osasalen resterà impresso come uno dei momenti più alti del festival. In una sala gremita, con molti costretti a restare fuori, il violinista di Haugesund – già direttore dell’Ole Bull Akademiet – ha guidato un quintetto straordinario, formato da Sigbjørn Apeland all’harmonium, Rolf-Erik Nystrøm ai sassofoni, Mats Eilertsen al contrabbasso e Håkon Mørch Stene a percussioni e vibrafono. Gran parte del repertorio era tratto dal recente Gjenskinn (Hubro), ma il concerto è andato ben oltre la restituzione discografica. A dominare è stato un senso di libertà consapevole, in cui folk, microtonalità, improvvisazione e musica contemporanea si sono intrecciati in modo fluido e profondamente espressivo. 

Økland, con il suo arco, sembrava attivare l’ensemble come per risonanza, mentre Apeland, immobile e solenne, tesseva armonie dal suono antico e “divino”. Nystrøm, imprevedibile e teatrale come sempre, ha trasformato il suo sassofono in uno strumento a fiato mediorientale, spezzando e ricucendo la trama con interventi di straordinaria originalità. Attorno, il suono scuro e materico di Eilertsen e Stene dave profondità e movimento. Una performance che ha restituito tutta la forza evocativa e il potere trasformativo del folk norvegese contemporaneo.

Le molte vite del folk a Vossa Jazz 2025

Il legame profondo tra il Vossa Jazz e la tradizione folk norvegese continua a essere uno degli elementi più vitali del festival. Anche quest’anno, questa matrice si è declinata in forme diverse, dal ballabile più diretto fino alle esplorazioni più intime e astratte, confermando la capacità del folk di rigenerarsi e dialogare con il presente.

A rappresentare il lato più indie-folk-pop e festoso, il trio ULD (Une Lorentzen Onarheim – voce, Lucia Utnem – piano, Dagny Braanen Lindgren – fisarmonica) ha proposto un set energico e melodico nella suggestiva chiesa in legno  di Vangskyrkja, che ha restituito alla loro musica un suono pieno, caldo e avvolgente. Di tutt’altro respiro, ma non meno profondo, il lavoro dell’Erlend Apneseth Ensemble, che ha chiuso la prima giornata del festival con un’esibizione a undici elementi basata sull’ultimo album Song over Støv(Hubro). Al centro, un quartetto di violini Hardanger (Apneseth con Helga Myhr, Rasmus Kjorstad e Selma French Bolstad) ha tessuto un dialogo serrato con il flauto di Henriette Eilertsen, la fisarmonica di Frode Haltli e le percussioni di Hans Hulbækmo e Veslemøy Narvesen, dando vita a un “banchetto sonoro” ricco di sfumature, dove interplay e scrittura si confondevano con sorprendente naturalezza. Apneseth si conferma uno degli elementi più interessanti della scena a cavallo tra tradizione e linguaggi contemporanei: un musicista capace di ripensare la forma folk mantenendone intatta l’intensità emotiva.

A chiudere idealmente questo percorso, il recital del duo Trygve Seim e Frode Haltli – anch’esso ambientato nella chiesa di Vangskyrkja – ha offerto un momento di raccoglimento sonoro, sospeso e contemplativo. Tratto dall’album Our Time (Ecm), il set ha esplorato territori ai confini tra musica da camera, jazz e spiritualità nordica, con la fisarmonica di Haltli e il sax di Seim capaci di valorizzare la risonanza naturale del luogo, arricchendola di un calore discreto e profondamente evocativo.

A dimostrazione di come il festival sappia anche guardare al futuro, coinvolgendo attivamente le nuove generazioni, il trio Building Instrument ha guidato un gruppo di dieci bambini in un’esibizione sorprendente: giocosa ma rigorosa, dove strumenti convenzionali si intrecciavano a bottiglie, campane di vetro e campionamenti da smartphone. Una suite collettiva dal sapore contemporaneo, capace di trasformare l’improvvisazione in un gesto inclusivo e visionario.

Foto di Luca Vitali

Kit Downes, tra tensione e poesia

Tra le presenze internazionali più significative di quest’edizione, il pianista britannico Kit Downes ha saputo lasciare il segno in due set agli antipodi, mostrando una versatilità fuori dal comune. Nel primo, all’Osasalen, ha condiviso il palco con la sassofonista argentina Camila Nebbia in un’improvvisazione radicale, intensa e imprevedibile, giocata tutta sul corpo e sul suono. I due musicisti hanno esplorato ogni possibilità timbrica dei loro strumenti: Downes spesso allungato sulle corde, mentre Nebbia, in un gesto tanto fisico quanto poetico, ha inserito vari oggetti nel sax dando vita a suoni fragili e disturbanti.

Poche ore dopo, Downes ha mostrato il suo volto più lirico nel delicato duo con Norma Winstone, figura storica del vocal jazz europeo. In un Vossasalen raccolto e attento, i due hanno attraversato un repertorio tratto dal loro recente album, con brani di Carla Bley, Ralph Towner, John Taylor e dello stesso Downes, impreziositi dai testi originali scritti da Winstone. Un set che ha avvolto il pubblico in un’atmosfera intima e sospesa. Kit Downes, dal tocco lirico e profondo al pianoforte, ha saputo affiancare la vocalist con straordinaria delicatezza, accogliendola con naturalezza sia nel dialogo musicale che nella presentazione dei brani, mettendola a perfetto agio in ogni momento. Interplay ed empatia mai prevedibili, che hanno donato al festival una pausa sospesa di bellezza essenziale.

Foto di Luca Vitali

Bugge AM ARE e l’impegno per Gaza

A trentacinque anni dalla sua prima apparizione al Vossa Jazz, Bugge Wesseltoft continua a essere una grande attrazione per il pubblico. Il Gamlekino era pieno all’inverosimile, per la presentazione del suo nuovo progetto AM ARE. Un concerto che procede per addizione: prima da solo al piano, poi via via affiancato da ospiti come Arild Andersen e Gard Nilssen, Sanskriti Shrestha, Rohoy Taalah e altri in un flusso musicale e visivo che ha raggiunto il culmine sul finire, con una preghiera per la pace dedicata a Gaza.

Foto di Luca Vitali

Come sempre, non è facile seguire la programmazione…

Come spesso accade in Norvegia, molti concerti si sovrappongono e sono dislocati in spazi diversi e a volte distanti, il che obbliga a scelte e, spesso, a non poter assistere a un concerto per intero. Peccato non aver potuto ascoltare alcuni concerti di sicuro interesse, come il progetto Eklektisk Samband del sassofonista Eirik Hegdal, recente vincitore del più importante premio norvegese, il Buddy-prisen, ma anche le band Flukten e Lotus con la giovane sassofonista Signe Emmeluth e altri elementi di spicco, come pure il trio del padre del free jazz in Norvegia Frode Gjerstad, affiancato dalla pianista franco-filippina Margaux Oswald e dal batterista recente vincitore dello Spellemannpris, Ivar Myrset Asheim. E altri nomi che sono perfetti sconosciuti per il sottoscritto, ma di sicuro interesse.

Un’edizione speciale anche sul piano simbolico, che ha visto la Ministra della Cultura e dell’Uguaglianza, Lubna Jaffery, annunciare ufficialmente l’avvio del progetto di rinnovamento del cinema Gamlekino, grazie a un accordo congiunto tra governo, regione e municipalità. Un segnale concreto di attenzione alle infrastrutture culturali del territorio, e alla centralità che il festival continua a rivestire anche a livello politico e istituzionale.

Un programma particolarmente ricco ha caratterizzato questa cinquantaduesima edizione del Vossa Jazz, e a Roger Urhaug va dato il merito - per questa sua prima direzione artistica -, di aver curato un’edizione forse meno internazionale di altre, ma di alto profilo, fortemente radicata nella scena norvegese e capace di parlare con forza e chiarezza. Il livello qualitativo è stato elevato, e la risposta del pubblico, con la gran parte dei concerti sold-out, ne è stata la conferma. Dopo più di cinquant’anni, il Vossa Jazz continua a essere un punto di riferimento imprescindibile per il jazz in Norvegia: un festival che non smette di nutrire la scena, lasciando ogni anno nuove tracce da seguire.

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