Vicenza Jazz 2 | Bellezza, sudore, poesia

Liebman, Fresu, Towner e la magnificenza del Teatro Olimpico

Recensione
jazz
10 maggio – Teatro Olimpico
Ho sempre pensato che qualunque evento si svolga sul palco del Teatro Olimpico di Vicenza sia condannato comunque a giocare un ruolo di sottofondo, inevitabilmente di secondo piano. Di fronte alla Bellezza che lì si percepisce non ce n’è per nessuno. Ricordo la mia prima volta, molti anni fa, per oltre mezz’ora rimasi stordito, della musica sul palco non mi rimase nulla. Detto questo, riguardo al doppio appuntamento di martedì sera si può subito affermare che rappresenta prima di tutto un ottimo esempio di strategia programmatica (anche se Brazzale nell’intro ci vorrebbe far credere a una strana concomitanza di date libere).

Primo set: la caotica energia di Liebman. Secondo set: il rassicurante ordine di Fresu-Towner. Equilibri perfetti.
Il newyorkese David Liebman è da quasi cinquanta anni simbolo, espressione paradigmatica della passionalità del (nel) jazz, dell’improvvisazione più travolgente. Illuminato da Coltrane, segue dalla fine degli anni Sessanta quella strada con l’ostinazione, la certezza che sia quella giusta, ma anche, con la maturità, non l’unica. Le sue collaborazioni stellari, basterebbe citare il Davis elettrico, lo vedono esprimere una personalità sanguigna, energetica, confortata da un notevole talento strumentale. Liebman è come se ci ricordasse costantemente che la storia del jazz è imperlata di sudore più che di stilemi o estetiche. L’apertura con il soprano è dedicata a Steve Lacy. Un brano bellissimo, intimo, contraddistinto da qualche spigolo acuto non proprio lacyano ma di grande impatto. Liebman passa poi al tenore per un omaggio ai genitori. Anche qui mette in gioco tutta la forza emotiva e il calore di cui è capace. Una mini suite divisa in tre parti, con al centro una limpida citazione di “A Love Supreme”, il fantasma del genio coltraniano che torna. Chiude in bellezza con “Petit Fleur” al soprano e “Peace on Heart” al tenore. Il cerchio si chiude.

Ralph Towner e Paolo Fresu si frequentano da tempo, si sente, si vede. Non una virgola fuori posto, uno sbaffo. Il loro punto di forza la condivisione di un quieto scenario sonoro, dove pennellare colori pastello, sfumature, scambiare sottintesi e sussurri. Il linguaggio di Towner è complesso, confonde tracce melodiche con increspature, accelerazioni ritmiche, spesso dai sapori mediterranei. Terreno perfetto per la tromba di Fresu che può far emergere al meglio tutto il proprio bagaglio poetico, la capacità di disegnare, anche attraverso gesto e postura, linee lunghe che vibrano nello spazio. I rischi di staticità o meccanicità esecutiva vengono risolti nella scelta dei tempi. Brani brevi, la durata di una canzone, che permettono di scolpire bene ogni contesto in un buon equilibrio tra unisoni e assoli, senza lungaggini o ripetizioni. Convincenti.

11 maggio – Teatro Comunale / Jazz Caffè Trivellato Bar Borsa
Con il Billy Hart Group al Comunale si respira la sana atmosfera che ti dà quel jazz vitale pieno di idee, che riconosce la propria storia ma non la musealizza, dove le personalità si fondono, si scontrano, tutti creano per il collettivo. Da “vecchio saggio” Hart (classe 1940, ha suonato con Miles Davis, Gil Evans, Lee Konitz, McCoy Tyner, Michel Petrucciani… tanto per capirci) si attornia di talenti assoluti, di nipoti che sanno il fatto loro, che hanno già lasciato un segno forte nel panorama del jazz contemporaneo, li vuole accanto per verificare se la sua batteria “classica” (si può dire?) può ancora funzionare. Funziona benissimo. Ethan Iverson, Mark Turner e Ben Street lo guardano come un maestro, e tale è. Rimangono affascinati, come noi, dal suo drumming scoppiettante: rullate, stop, controtempi, ritmi incrociati, un uso dei colori dei piatti incredibile che costruisce un vero muro sonoro che i solisti infrangono a turno. Sulla strada di Elvin Jones, Art Blakey, Max Roach (del quale usa una figurazione resa celebre da uno storico solo) Hart per non rischiare nostalgie si confronta con i linguaggi più avanzati dei suoi compagni di viaggio. Il contrasto è coinvolgente. Iverson con forte personalità sfoggia trame complesse di sostegno per poi lasciarsi andare ad assoli distorti, astratti, scolpiti con un pizzico di blues che ricordano Paul Bley. Con il suo tenore Turner sembra quasi capitato per caso sul palco, ma alla presunta indifferenza corrisponde nella realtà un fraseggio magico, fluido, caldo ma mai stucchevole. Street segue varie strade con il suo contrabbasso, si diverte a sostenere le più disparate soluzioni ritmiche del leader ma è anche impeccabile quando riempie con profondità i silenzi. Un quartetto jazz.

La serata autunnale e la pioggia non invitano a stare in giro per una Vicenza quasi deserta. Ma un salto al caffè Borsa non si può non fare. E ne valeva la pena, perché se purtroppo ci siamo persi il trio di Cristiano Arcelli che presentava il suo Solaris, una delle migliori produzioni del 2015, ci possiamo godere tutto il set di Dario Cecchini con il suo Triozone (Guido Zorn al contrabbasso e Bernardo Guerra alla batteria). Baritono, clarinetto basso e flauto, Cecchini, anima e band leader dei famosi Funk Off, ci dà prova di un gran bel linguaggio e relativa scrittura. Melodie, ritmi sostenuti, improvvisazioni avventurose, sono tante le sfaccettature dei brani, sempre coerenti.
Sia va a letto un po’ umidi ma contenti.

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