Vicenza Jazz 1 | Creativi e vecchi leoni

Il Threadgill pensiero infiamma l’apertura di Vicenza Jazz New Conversations 2013

Recensione
jazz
Superata per l’ennesima volta l’emozione e lo stupore di fronte alle meraviglie architettoniche e le visioni prospettiche che regala il Teatro Olimpico, proviamo a entrare nel vivo di un festival che, raggiunta la maturità dei diciotto anni, si dimostra ancora tra i più vitali e contraddittori. A cominciare dalle volontà tematico-programmatiche che il direttore artistico Riccardo Brazzale ci offre annualmente con buona dose di ironia e volontà spiazzante - si presume. Con Nel fuoco dei Mari dell’Ovest – West Coast and the Spanish Tinge cosa ci vorrà dire, ad esempio? Dove sono nel corposo programma queste tracce? Ma in fondo non è così importante. Lasciamo a Brazzale la fascinazione del temi esotici. Importante è invece la musica, le possibili connessioni e stimoli che una proposta così complessa e articolata, in location e ambientazioni sonore diverse, può sviluppare.

Prima serata, subito un dubbio. Di più, purtroppo: una confermata certezza. Come si fa a programmare in due set Threadgill & Zooid e il trio Mintzer-Abercrombie-Vitous? Affiancare uno degli aspetti più avanzati della contemporaneità del jazz con tre “vecchi” leoni che per sentirsi vivi rileggono standard? La teoria del contrasto forte non funziona, almeno in questo caso. Limitare lo spazio creativo a Threadgill non è solo un peccato assoluto, ma una scelta penalizzante per chiunque debba salire sul palco dopo di lui, e questo è successo.
Zooid è una vera miniera di emozioni. I temi danzanti di Threadgill ancora più prosciugati, rigorosi. Formazione stratosferica per capacità creative coniugate ad una filosofia musicale che da anni rappresenta uno dei lidi più fascinosi della musica afroamericana. Ance e flauti (Henry Threadgill), chitarra (Liberty Elman), trombone e tuba (Jose Davila), violoncello (Christopher Hoffman), batteria (Elliot Kavee); band strumentalmente non ortodossa, contenitore di sapori, colori, ritmi, guizzi astratti, dove tempi sospesi, atonalità, tracce etniche e marce producono un turbinio di interferenze: dall’avanguardia allo swing degli anni duemila. Threadgill nasconde il centro della musica, sovrappone strati sonori, concede pochi pregevoli interventi strumentali, come per dire che basta un tocco, un segno come autografo sul proprio lavoro compositivo. Musica che pulsa in modo circolare sprigionando energia soprattutto dopo gli stop sbilenchi, quando il silenzio amplifica nello spazio sonoro tutti i materiali elaborati.

Proprio mentre ci godiamo questi riverberi arrivano sul palco tre signori che pensano di stare in un jazz club e di conseguenza si comportano. Ci riportano con i piedi per terra (in realtà stavamo molto bene lassù in alto). Trio: Bob Mintzer (sax), John Abercrombie (chitarra), Miroslav Vitous (contrabbasso). Storie importanti, musicisti che hanno segnato con percorsi diversi il jazz degli ultimi decenni. Storie che i tre però rischiano abbondantemente di buttare via con un set incolore, piatto, da pensionati del jazz. Qualche piccolo lampo all’inizio, poi ognuno va per la propria strada farcita di luoghi comuni, interplay zero. Gli standard sono cose serie, è legittimo suonarli, rileggerli, attualizzarli, ma soprattutto rispettarli come capisaldi dell’estetica jazzistica. Vitous cerca di mettere in gioco un po’ di energia rimasta nell’aria, ma il suono del mini contrabbasso con pedale, soprattutto con l’archetto, è, a dir poco, indecente. Resta il dubbio sulla penalizzazione del dopo Zooid, ma anche la certezza che i tre si sarebbero fatti male anche soli.

Delusione quindi, ma anche rabbia perché, mentre ci stiamo annoiando, al Cafè Trivellato, sotto la Basilica Palladiana, si esibiscono quasi in contemporanea formazioni di giovani musicisti italiani di grande interesse. Spazio caotico ma importante vetrina per formazioni e progetti nuovi che il festival programma da anni con sensibilità e lungimiranza. Enrico Zanisi trio, Alessandro Paternesi Quintet e Alessandro Lanzoni trio sono realtà vitali di un jazz italiano che cerca di svecchiarsi, di rottamare (culturalmente) troppi intoccabili e privilegi. Peccato che la sovrapposizione degli orari non permetta di fruire, come meriterebbero, entrambe le programmazioni. Una riflessione per l’organizzazione.

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