Viaggio a Reims dall'assurdo alla farsa

Successo facile per l'opera di Rossini alla Deutsche Oper di Berlino, nonostante una regia discutibile 

Il viaggio a Reims, foto di Thomas Aurin
Foto di Thomas Aurin
Recensione
classica
Berlino, Deutsche Oper
Il viaggio a Reims 
15 Giugno 2018

Ogni centenario dovrebbe sempre essere l’occasione per una riscoperta di aspetti inesplorati o meno noti della produzione artistica del festeggiato e su Rossini, specie quello serio, nel mondo germanico le opportunità sarebbero molteplici.

   

La Deutsche Oper, spesso coraggiosa nelle scelte artistiche, in questo caso preferisce andare sul sicuro con un nuovo allestimento de Il viaggio a Reims, oramai entrato stabilmente fra le opere più rappresentate del pesarese. Non brilla nemmeno per originalità e ancor meno per raffinatezza il nuovo allestimento del teatro berlinese firmato da Jan Bosse, che dichiara di voler puntare sull’assurdo rossiniano, come un maestro riconosciuto dell’assurdo contemporaneo come Christoph Marthaler, che proprio in quell’opera non produsse risultati particolarmente brillanti (mentre il mitico allestimento ronconiano della riscoperta a Pesaro continua a non avere rivali dopo trentacinque anni). Un cubo dalle pareti riflettenti e due file di letti come negli ospedali psichiatrici pre-basagliani (la scena è di Stéphane Laimé) e costumi di ostentato cattivo gusto con tanto di corredo intimo con connotazioni nazionalistiche (l’assemblaggio è di Kathrin Plath) supportanto la sequenza di gag di gusto goliardico e le insensatezze corrive, che continuano purtroppo a essere pane comune sulle scene tedesche quando si tratta di titoli buffi di compositori italiani. Un approccio più profondo alla drammaturgia del teatro rossiniano è rinviato alla prossime celebrazioni fra qualche decennio. 

Sul piano musicale, il Viaggio è quel che stato fin dalla nascita ossia una vetrina di voci. Assenti le star riconosciute del canto rossiniano, quelle che si alternano sulla scena della Deutsche Oper sono una buona combinazione di professionalità affidabile e di avvio alla carriera. Fra i primi, si impongono la classe vocale di Elena Tsallagova, scintillante Corinna accompagnata anche sulla scena dall’arpa solista di Virginie Gout-Zschäbitz, e lo sfrenato virtuosismo di Siobhan Stagg come Folleville, mentre Hulkar Sabirova è una Madama Cortese spesso approssimativa e troppo farsesca e Vasilisa Berzhanskaya una Melibea cavernosa e incomprensibile nella dizione. Nel comparto maschile funzionale ma privo di spiccate qualità si distingue Davide Luciano, un Don Profondo giovane e vocalmente disinvolto, mentre tenori Gideon Poppe, come Cavaliere Belfiore, punta per lo più sulla simpatia del personaggio, David Portillo, Il Conte di Libenskof, tira fuori la grinta vocale solo nel duetto finale con Melibea, Mikheil Kiria è un Lord Sidney di scarso carisma e non va meglio con Dong-Hwan Lee, un cupissimo Don Alvaro che passa quasi inosservato. Fra i quasi debuttanti, il giovane Philipp Jekal è un Barone di Trombonok in urgente bisogno di lezioni di stile buffo rossiniano, Sam Roberts-Smithun Don Prudenzio che dimostra come un costume non fa un personaggio, più interessante Juan de Dios Mateos pur nel microruolo di Zefirino e non pervenuti gli altri. Fra le non poche debolezze del cast, rimane la certezza dell’Orchestra della Deutsche Oper sempre con le carte in regola grazie a una versatilità stilistica che è la sua cifra più caratteristica. Nell’occasione la guida il giovane Giacomo Sagripanti, ormai più che una promessa nell’ultima generazione dei rossiniani. 

Malgrado tutto, il Viaggio a Reims funziona sempre e i generosi applausi non mancano.

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