Un tesoro di pianista

Kris Davis in piano solo al Centro d'Arte di Padova si dimostra improvvisatrice di livello

Recensione
jazz
Centro d'Arte degli Studenti dell'Università di Padova Padova
04 Aprile 2017

Di pianisti in giro ce n'è a secchiate. Bravi, bravissimi, fantastici, fenomenali persino. Ma di improvvisatori con un'idea precisa e profonda di cosa suonare (e soprattutto non suonare), con una visione lucida e rigorosa, non è che se ne incontrino poi molti. Come riconoscerli? Facile: piano solo e non si sbaglia. Legno, corde, tasti e mani: l'inconfutabile esame del DNA, la prova ultima e definitiva. Chi ha cuore e cervello incanta, chi ha poco del primo e ancora meno del secondo (o viceversa) rimedia sbuffi e sbadigli. Ammessa di diritto al gruppetto dei promossi la canadese – anche se newyorchese ormai a tutti gli effetti – Kris Davis. Che di indizi e tracce della propria significativa presenza ne aveva già disseminati a iosa (in proprio e nei dischi altrui, come strumentista e come arrangiatore), ma che all'ombra dei Giganti della Sala del Liviano di Padova, ospite del Centro d'Arte, ha confermato di avere lo spessore e la caratura del jazzista di prima fascia. Saltellando con grazia da una labirintica rilettura di “Round Trip” di Ornette Coleman, costruita attorno all'imprevisto deflagrare di un temporale, con tanto di fulmini e tuoni assordanti, a una deliziosa rivisitazione della monkiana “Eronel”, da un nervoso inchino a John Zorn a uno stupefacente saggio di efficacia e senso della misura al piano preparato (forse il punto più alto dell'esibizione). Senza eccessi, senza strafare. Con semplicità ed eleganza anche nei passaggi più rarefatti e disarticolati (il secondo e ultimo bis, totalmente improvvisato), giocando di sponda con ostinati e progressioni, scomponendo e ricomponendo gli intrecci e le tessiture, martellando a due mani nell'unico momento sopra le righe per intensità e aggressività dell'intero programma. Un tesoro di concerto; un tesoro di pianista.

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