Tutti i linguaggi di Jazzmadrid 2018

Mary Halvorson, David Murray, John Surman e i flamenco standards di Pablo Caminero: il meglio del jazz festival di Madrid

Flamenco Standards (foto di Jaime Massieu / JAZZMADRID)
Flamenco Standards (foto di Jaime Massieu / JAZZMADRID)
Recensione
jazz
Madrid
Jazzmadrid 2018
06 Novembre 2018 - 30 Novembre 2018

Dopo l’overdose di musica di questo novembre madrileno del festival Jazzmadrid 2018, attraverso l’itinerario di ascolti in cui ci siamo imbattuti, tra l’intenzionale e il casuale, sorgono spontanei  alcuni spunti di riflessione: nella grande varietà delle proposte, abbiamo cercato  di individuare un filo o una linea comune, tra quelle che in qualche modo si inseriscono su una linea di innovazione. E se ormai da più di vent’anni il jazz si è aperto sempre più ad attingere da altri linguaggi le sue formule idiomatiche e stilistiche, ci vorremmo concentrare sull’aspetto formale e strutturale della performance esecutiva e improvvisativa di alcune proposte, con strutture e arrangiamenti che superano le forme più schematiche e tradizionali della forma canzone, dello standard, con il giro regolato di improvvisazioni strumentali; ed è questo un aspetto che abbiamo evidenziato già nelle prime esibizioni del festival, come in quella dei pionieri del free dell’Art ensemble of Chicago o in quella del quartetto di Avishai Cohen.

Nella bellissima performance dell’ottetto di Mary Halvorson, del 13 novembre nell’auditorium CentroCentro, ad esempio, sono emersi caratteri di un progetto che mira a un tipo di improvvisazione "libera", sviluppata su strutture i cui modelli prendono spunto da quelle tipiche delle big band, per il tipo di sonorità e per le connessioni dei momenti solistici con quelli d’insieme. L’esibizione dell’ottetto si è vista delinearsi come un articolato gioco d’incastri, nel clima di un trasognato jazz urbano, complice un uso straniante della steel guitar di Susan Alcorn, in un dialogo serrato con il colore della chitarra della stessa Halvorson. Da temi densi di contrappunto sfociavano gli episodi solistici sferzanti del sax tenore di Ingrid Laubrock e del trombone Jacob Garchik, quindi le improvvisazioni collettive di un free che confluiva all’interno di un quadro strutturale ben delineato. L’intensità, la grande efficacia e forza espressiva di questo progetto, che si intitola Away with You, stanno nel sapiente dosaggio di momenti in cui si possono sentire complesse polifonie, aspre dissonanze, lunghi pedali, episodi minimalisti, ritmi dispari, quindi escursioni in una sorta di onirico blues e momenti di languido lirismo.

In una proposta come quella del sassofonista David Murray e del rapper/attore Saul Williams, intitolata Blues for Memo, presentata lo scorso 18 novembre, è sicuramente la dimensione narrativa e della parola a determinare in maniera prevalente la struttura, nell’articolarsi degli interventi musicali, fortemente sostenuti da una base ritmica dotata di una forte energia e di ricca vitalità, con la batteria di Nasheet Waits e il contrabbasso di Jaribu Shahid. Su questa base Williams alternava un tono di racconto poetico con momenti più decisamente connotati di un sapore rap - lounge. Negli interstizi della parola si innestavano i fraseggi stringenti del piano di Orrin Evans e del sax di Murray, che passava da un colore caldo e soffuso – alla Lester Young – a momenti free, serrati e nervosi o di straniante lirismo. Anche qui assistiamo a una successione senza soluzione di continuità di climi emotivi che assumono di volta in volta i caratteri di un incalzante swing, quindi di un bebop o di un ossessivo minimalista ripetersi di un loop: il gioco dei rimandi con la parola recitata/intonata è stringente ed efficacissimo; e ci pare che in questa articolazione, apparentemente caotica di elementi, si riesca a conseguire e ad aprire la visione di un viaggio interiore, in una straniante atmosfera urbana, estremamente intenso.

È quindi sulla linea di una specie di jazz da camera, con una formazione costituita da sax/clarinetti, piano e vibrafono/marimba, che si è presentato John Surman con il suo trio, nel concerto del 21 novembre al Conde Duque. C’è quasi una impostazione classicheggiante a dare l’impronta a questo tipo di proposta, con un utilizzo, alla Milhaud, di temi quasi infantili, danzanti, quindi con le aperture "romantiche" del piano di Nelson Ayres. C’è un sapiente innestarsi di contrappunti del vibrafono di Rob Waring con il pianoforte, su cui plana a tratti il sax soprano di Surman, disegnando un melos dilatato e sognante. Di fondo, la proposta di Surman, sicuramente raffinata, si caratterizza per una costruzione assai elaborata di strutture, ma non coinvolge e non ci convince pienamente per un’elaborazione che non dà molto spazio a spunti improvvisativi, che restano a volte quasi accennati, a volte di un colore e di un tono esageratamente sommessi, anche se non sono mancati momenti di intenso solismo, specie con il clarinetto basso. 

La proposta del contrabbassista Pablo Caminero, denominata Flamenco Standards (il 30 novembre al Conde Duque) si propone, come nella tradizione jazzistica, di dare alla luce una pubblicazione di standard, che riportino i temi più eseguiti di un repertorio, che in Spagna si sta ormai consolidando sempre più, come quello del jazz flamenco. Con una formazione composta da tromba, Enrique Rodriguez, chitarra, Rycardo Moreno, batteria, Marc Miralta e il contrabbasso del leader, l’ensemble, partendo con l’intonazione di un cante jondo riesce, via via, a delineare un clima di particolare intensità espressiva, in cui un suono della tromba con sordina di Rodriguez, staccandosi dalle intonazioni del canto originario, disegna un fraseggio denso in cui gli elementi "jazzistici" si profilano gradualmente. C’è quindi, per tutta la durata del concerto, un ricco alternarsi di questi momenti, con stacchi ritmici di grande vigore, e un’integrazione sapiente di improvvisazioni e riprese tematiche, di commutazioni graduali di codici improvvisativi, quelli del flamenco e del jazz, a tratti integrandosi a tratti staccandosi. Nell’approccio di Caminero e del suo ensemble possiamo avvertire sicuramente il dominio di una costruzione e nello stesso tempo il controllo di quei momenti in cui si avverte una divaricazione dei linguaggi. Nel corso della performance i musicisti riescono  mettere in evidenza tutto ciò senza generare effetti artificiosi o fasulli: e questo è sicuramente un grande merito, anche perché la partecipazione e l’entusiasmo del pubblico sono notevoli.

Tra le serate di un jazz più tradizionale abbiamo sentito un godibilissimo concerto con il violino di Regina Carter – mirabili e proverbiali la sua pulizia del suono, il gusto e l'eleganza nel fraseggio – e quello che ha concluso il festival, il 30 novembre, con il chitarrista di Valenza Ximo Tébar, istrione e notevole virtuoso del suo strumento, però spesso eccessivamente strabordante (molti i cliché, gusto un po’ festaiolo): nella performance è emerso comunque un buon groove, specie nel dialogo con l’altrettanto istrionico batterista Nathaniel Townsley, attraverso un repertorio di standard dei più classici, di una sua produzione "mediterranea" e di blues, regalati come bis.

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