Turandot secondo Wilson

Successo a Madrid per l'opera di Puccini diretta da Luisotti

Turandot
Turandot
Recensione
classica
Teatro Real Madrid
Turandot
30 Novembre 2018 - 30 Dicembre 2018

La grande pregnanza di elementi simbolici del mondo pucciniano di Turandot  ha, da sempre, segnato una decisa distanza da ogni visione di carattere realistico delle vicende di del principe Calaf, dell’umile Liù e della terrifica regina. La scelta, da parte del Teatro Real di Madrid, di affidare la direzione scenica di quest’opera a Robert Wilson ci pare oltremodo indovinata propio perché, per come si sono delineati i caratteri di questo allestimento, la poetica del regista statunitense si viene felicemente incontrando con alcune caratteristiche e modalità espressive della più antica tradizione teatrale cinese. Infatti, una sua propensione narrativa, che si fonda prevalentemente sulla staticità, nell’evidenziare dettagli di movimenti minimi e sulla lentezza dell’azione, nell’allestimento madrileno, trovano un fertile terreno. Lo trovano evocando, per l’appunto, molti degli ingredienti tipici del teatro classico cinese (ricordiamo il mondo e i caratteri di questo teatro descritti nel celebre film, che vinse a Cannes nel ’93, Addio mia concubina): la quasi assenza di scenografie, una narrazione non naturalistica, una forte carica di elementi simbolici soprattutto nei colori, una gestualità fatta di dettagli e convenzionale, così come l’uso di costumi estremamente ricchi e di un trucco molto elaborato.

Così sui fondali colorati e luminescenti, che oscillano tra il blu intenso ed un rosso vivo accecante, le vicende della soluzione degli enigmi di Turandot si svolgono con i protagonisti, disposti simmetricamente in uno statico piazzato frontale. Dietro di loro i soldati, e tutto il popolo di Pechino, fermi - quasi a ricordare le statuine del famoso esercito di terracotta - mentre l’imperatore sovrasta, illuminato, come sospeso e con la figura di Turandot, vestita di rosso vivo, a contrastare visivamente con il blu del fondo. Di converso le tre figure di Ping, Pong e Pong, vivacissime, fanno da contraltare alla staticità dell’assunto, con una mimica e movimenti, saltelli continui - in maniera forse un po’ ripetitiva - con modalità che possono ricordare quelle dei giullari del teatro cinese. La rappresentazione della morte di Liù è quindi priva di elementi violenti e sanguinolenti: ella resta immobile col braccio sospeso, come bloccata nell’ultimo gesto. Possiamo dire che finalmente si superano tutta una serie di incongruenze e ambiguità drammaturgiche di una visione naturalistica, da teatro verista; finalmente, tolta di torno tutta una paccottiglia scenografica, da ‘visita alla Grande Muraglia’, ed una gestualità melodrammatica che appartiene ad un altro Puccini, può emergere tutta la carica simbolica ed il valore di questo capolavoro del Novecento. 

La direzione musicale di Nicola Luisotti coglie e gestisce le gemme dell’orchestrazione pucciniana con grande perizia, a tratti dilatando le espansioni melodiche ma con un notevole senso teatrale della direzione. La soprano ucraina Oksana Dyka ha fatto gradualmente emergere il carattere umano del personaggio Turandot, il cui temperamento normalmente è fissato nel cliché del suo algido e freddo isolamento: ricco di sfumature il suo canto svetta, sicuro con un timbro penetrante. Nel Calaf di Roberto Aronica, pur con qualche incertezza nel registro medio basso, emerge una vocalità stentorea e robusta che conferisce al personaggio una risolutezza decisamente marcata; delicata e ricca di finezze la prestazione della cantante basca, Miren Urbieta-Vega nel ruolo di Liù; oltre che di notevole versatilità mimica e attorale, i tre ministri Ping Pang e Pong, interpretati da Joan Martin Royo, Vicenç Esteve e Juan Antonio Sanabria, agili e brillanti, si innestano con sicurezza, precisione vocale e di pronuncia, in tutti momenti dell’azione.

Vivo successo di pubblico, con il teatro esaurito in tutte le recite.

 

 

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