Tuba, fantasmi e Mediterraneo | Bergamo Jazz 1

Primo giorno per l'edizione 2012 del festival, diretto per la prima volta da Enrico Rava

Recensione
jazz
Un uomo abbracciato a un bassotuba seduto su una seggiola. Immagine non inconsueta per una galleria d'arte, ma non è un'installazione: lui, Oren Marshall, la tuba la suona davvero. E trascina il pubblico a colpi di borbottii, sbuffi, dolci barriti, fino a un conclusivo coro a bocca chiusa collettivo. Si apre così - alla Galleria d'Arte Moderna e Contemporanea - Bergamo Jazz edizione numero trentaquattro, la prima curata da Enrico Rava: solo con il suo ingombrante strumento, Marshall si rivela esploratore timbrico di grande fantasia e performer ineccepibile, alternando proprie composizioni a momenti liberamente improvvisati, ben mimetizzando l'indispensabile virtuosismo in una coesione narrativa che incanta i tanti spettatori, gioca con il "disturbo" di un bimbo irrequieto e doma il lucente pachiderma sonoro con un sorriso.

In serata tutti al Teatro Donizetti, come di consueto, dove si mescolano appassionati e signore elegantissime che al telefonino nel foyer cinguettano a un'amica «c'è un pianista, mi pare si chiami Morgan»...
In realtà è Jason Moran, artista tra i più originali nella sintesi tra tradizione afroamericana e contemporaneità post-urbana. Il suo è un set in solitaria tutto giocato sulla memoria e i suoi fantasmi, evocando dall'iPod la voce di Fats Waller o il pestare danzante dei piedi di Monk, suonando assieme alla voce polverosa di Billie Holiday e zompettando sulla tastiera tra pianismo "stride" e incantatorie iterazioni (un suo classico quella su "Body And Soul").
Qualche collega storce il naso: troppo didascalico e poco incisivo rispetto a alcune maiuscole prove in altri contesti. A me invece sembra che - pur avendo giocato un po' in retroguardia rispetto ad alcune delle proprie originalità - Moran parli anche qui una lingua jazzistica in cui si stratificano segni densi di significato e contraddittori straniamenti. Verrebbe voglia di farlo suonare in un cortile con tutti attorno a danzare e dargli energia, piuttosto che sotto le luci di un teatro, ma anche questa è una contraddizione con cui il pianista gioca volentieri, poi sorride sornione e se ne va tra gli applausi. Compreso il mio.

La serata si chiude con il suggestivo connubio tra la tromba/flicorno di Paolo Fresu (tornato sul palco del festival dopo avere diretto le precedenti tre edizioni), il bandoneon di Daniele di Bonaventura e il coro polifonico còrso A Filetta. Folklore immaginario, che bagna il cuore con onde spumeggianti e benefiche, nonostante la "modalità jazz mediterraneo" sia ormai pericolosamente in bilico sul crinale dei cliché. I cantanti sono bravissimi e spontanei, Fresu e di Bonaventura li seguono con la consueta sensibilità lirica, tutto è forse un po' lungo - specie quando sei al terzo concerto della giornata e le scomode poltrone del Donizetti sembra ti si chiudano progressivamente sulle tibie come in un vecchio film dell'orrore - ma il calore del pubblico è certamente meritato.
Rava sorride sotto i baffi, i gusti assortiti di questa prima giornata sono sembrati azzeccati... La sfida continua...

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