Trionfa il classicismo nell’autunno di Baden-Baden
Al Festspielhaus il festival d’autunno “La Grande Gare” si chiude in grande stile con il Gluck e il Mozart del Balthasar-Neumann Ensemble&Chor diretti da Thomas Hengelbrock
È un viaggio musicale nell’Europa del XVIII secolo quello al quale invita “La Grande Gare”, il festival d’autunno del Festspielhaus di Baden-Baden. La “gare” di cui si parla è, ovviamente, la vecchia stazione centrale di Baden-Baden di inizio Novecento che oggi fa da ingresso alla moderna sala costruita da Wilhelm Holzbauer un quarto di secolo fa. Ma vuole essere anche il simbolo delle idee in viaggio nell’Europa settecentesca, piena di confini e di conflitti ma anche fucina di grandi innovazioni in campo musicale e non solo. Sono tre le figure al centro del programma: “papà” Haydn, la “pop star” Mozart e il “grandseigneur” Gluck (definizioni come da programma ufficiale). I due estremi che racchiudono il segmento storico che definiamo classicismo sono però Vivaldi, con sue arie e concerti eseguiti da Lea Desandre accompagnata dall’ensemble Jupiter, e Schubert con un programma di Lied e cameristica con il tenore Julien Pregardien e un trio violino, violoncello e fortepiano di accompagnamento. Il posto d’onore tocca naturalmente al patron del festival d’autunno, Thomas Hengelbrock, e al suo Balthasar-Neumann-Ensemble, che torna a un repertorio più consueto dopo l’Ottocento franco-tedesco della scorsa edizione e addirittura al verismo mascagnano di Cavalleria rusticana nel 2022. La triade classicista viene celebrata con tre composizioni emblematiche. Aperto con l’Haydn dell’oratorio Die Schöpfung, il festival d’autunno si conclude con il Gluck francese dell’Iphigénie en Tauride e il Mozart del Requiem, e con un finalissimo consacrato ancora a Gluck, ma italiano, con una tappa della tournée europea di Orfeo ed Euridice con Cecilia Bartoli e Les Musiciens du Prince diretti da Gianluca Capuano, riproposto in concerto un paio di stagioni dopo il debutto al Festival di Salisburgo.
“Mi sembra che Luigi XVI e il compositore Gluck inaugureranno una nuova era” pronosticava Jean-Jacques Rousseau. Non si sbagliava troppo sul monarca destinato a chiudere sulla ghigliottina rivoluzionaria una lunga pagina della storia di Francia, mentre il secondo con il trionfo parigino dell’Iphigénie en Tauride si inseriva nella gloriosa tradizione della “tragédie lyrique” quando la sua riforma dell’opera era già avviata da un quindicennio. Se spesso il Gluck francese soffre di esecuzioni di algida monumentalità, quello proposto da Thomas Hengelbrock è vivo e trepidante e fa già presentire inquietudini protoromatiche. Fin dall’apertura, con poche battute quasi sottovoce seguite dall’agitazione della tempesta, nervosa più che violenta, quasi un riflesso dell’anima tormentata della protagonista, come sarà anche per gli altri personaggi. Hengelbrock non esaspera mai le dinamiche orchestrali e chiede un suono sempre trasparente e “in ascolto” alle ragioni più intime dei personaggi. Ottimo il Balthasar-Neumann Ensemble e straordinario il coro che partecipa in geometrie variabili al racconto scenico ora come trepidanti sacerdotesse di Diana, ora come selvaggi seguaci del re scita Thoas (e bellissimo il colore etnico dato dall’orchestra), ora come sussurranti ombre degli inferi che tormentano il matricida Oreste e ora come greci liberatori trionfanti al seguito dal Pylade che sfodera il suo lato eroico mosso dall’amore per il compagno Oreste. Perfettamente intonati a questo Gluck solo musicale eppure intimamente teatrale sono tutti i protagonisti a partire dall’Iphigénie di Tara Erraught, perfetta nel prestare voce e corpo alle inquietudini profonde del personaggio. Esemplare per misura l’Oreste di Domen Križaj, eroe ferito e dolente, che trova un compagno ideale nel Pylade di Paolo Fanale, vocalmente sicuro e stilisticamente impeccabile (da manuale la sua aria “Unis dès la plus tendre enfance” del primo atto, autentica dichiarazione d’amore). Più sanguigno e istrionico, invece, il Thoas di Armando Noguera, come ruolo impone. Breve ma vocalmente autorevole l’intervento della Diane di Gwendoline Blondeel, mentre ai ruoli minori prestano le voci i coristi Josua Bernbeck, Ella Marshall Smith e Karin Gyllenhammar.
Al “grandseigneur” Gluck segue la “pop star” Mozart ed è subito sold out. Prima però si esegue la cantata “Christ lag in Todesbanden” (Cristo giaceva nei lacci della morte), lavoro giovanile di Johann Sebastian Bach (poteva mancare?) su un testo di Martin Lutero. Composta probabilmente nel 1707 per le celebrazioni della Pasqua, è ancora una volta occasione per dare rilievo alle qualità vocali individuali del coro della Balthasar-Neumann e in particolare di Ella Marshall Smith, Anne Bierwirth, Mirko Ludwig e Ilia Mazurov che avanzano in proscenio per i momenti solistici. C’è un senso intimamente teatrale nel gesto orchestrale del Balthasar-Neumann modellato da Thomas Hengelbrock in questo Bach ma ancora di più nel Mozart del Requiem che segue quasi come una evoluzione naturale, priva di contrasti evidenti. Se è vero che il Requiem è soprattutto una celebrazione dei viventi, lo è anche di più nella rasserenante visione di Hengelbrock che fa risaltare soprattutto la straordinaria omogeneità e trasparenza del suono orchestrale e la duttilità del suo coro sul quale si inseriscono in maniera naturale gli interventi dei quattro solisti, il soprano Carolyn Sampson, il contralto Eva Zaïcik, il tenore Benjamin Bruns e il basso Tareq Nazmi. Del Requiem Hengelbrock sceglie di eseguire la versione tradizionale completata da Franz Xaver Süßmayr, quella che si ascolta più di frequente, ma l’evidenza data ai fiati, il colore tiepolesco di cui sono capaci gli archi, la sommessa spiritualità che il canto esprime trasforma questa celebre composizione mozartiana in una esperienza nuova all’ascolto. Quando temina anche l’ultima nota, Hengelbrock rimane come assorto per un attimo e con lui il pubblico. E poi gli applausi, interminabili, per tutti.
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