Tra Camilleri e Caravaggio

Il Festival Pergolesi Spontini

Recensione
classica
Tanti e di respiro diverso gli appuntamenti offerti dal Festival Pergolesi Spontini, appena concluso. Dal medioevo all’oriente, dal barocco al jazz, all’opera: stili, generi, epoche, accomunati dall’idea pre romantica della creazione musicale come gioco intellettuale e tecnico, tanto più sorprendente e geniale quanto più capace di rielaborare un’idea originaria spesso non propria, allontanandosi da essa per poi inaspettatamente ritornarvi. Idea particolare di creazione musicale che tuttavia non rinunciò a sedurre anche taluni compositori romantici, amanti di esplicite citazioni musicali o autori di superbe trascrizioni, parafrasi, “reminescenze”. Sfida, gioco, ossequio alla tradizione, continuità del repertorio: diverse le motivazioni di questa antichissima inclinazione della composizione musicale, e diverse le angolazioni che ha assunto. Una di queste, la più discutibile, è la falsificazione, l’imitazione dello stile e delle idiosincrasie di un modello: proprio al “Falso d’autore” è stato dedicato questo festival, a Jesi e in luoghi diversi della Provincia di Ancona. “Falso” in senso lato, perché non è stato dato spazio soltanto alle false attribuzioni, ma anche all’arte di rielaborare, di riscrivere, di parafrasare. La serata di apertura, il primo settembre, ha accostato lo Stabat Mater pergolesiano, interpretato da Le Banquet Celeste, con Emmanuelle De Negri soprano affiancata da Damien Guillon controtenore e direttore, alla sua rielaborazione in chiave jazz. Stabat Mater in jazz è nato dall’idea della fisarmonicista Giuliana Soscia e Pino Jodice, che su esortazione di Roberto De Simone hanno sviluppato il nucleo originario che rielaborava la prima parte della sequenza. I temi pergolesiani affidati alla fisarmonica, le cui sonorità ricordano di volta in volta la voce umana o un organo barocco, sono contaminati con il tango argentino; il testo viene evocato solo sporadicamente con vocalizzi afro-cubani e con il “canto a fronne” napoletano, ma ne viene mantenuto il carattere intimista. Una commistione di suggestioni diverse, che hanno creato un piacevole contrasto anche per il luogo di esecuzione, la piazza antistante il teatro Pergolesi di Jesi, dove un’ora prima era stato eseguito il capolavoro pergolesiano. Che aveva goduto di una interpretazione particolarmente attenta ai suoi toni dolorosi, intimi, mistici, attraverso l’accentazione quasi compiaciuta sullo stridore delle dissonanze, l’incedere solenne dei tempi lenti, il languore delle melodie emergenti dal gioco contrappuntistico. Guillon ha dato dell’opera una lettura intensa e vibrante, anche dal punto di vista vocale; peccato che la sua qualità timbrica si offuscasse e perdesse corpo nel registro grave, contrariamente alla De Negri, sempre all’altezza di ogni pagina.

Appuntamento di richiamo del festival è stata poi la prima esecuzione assoluta dell’opera in un atto Il colore del sole, musica di Lucio Gregoretti su libretto liberamente tratto da un romanzo di Andrea Camilleri. Il plot è giustificato dalla proiezione prima dell’inizio di una video intervista di Ugo Gregoretti a Camilleri, dove lo scrittore crea la finzione letteraria che dà corpo all’opera: il ritrovamento di un diario sconosciuto di Caravaggio, dove con un rude linguaggio seicentesco l’artista di proprio pugno lascia memoria delle vicende dell’estate del 1607. In fuga tra la Sicilia e Malta, inseguito dai sicari dei Cavalieri di Malta, a cui apparteneva, e dalle guardie papali per un delitto commesso anni prima e a causa del quale è stato condannato a morte, Caravaggio è anche perseguitato da mille ossessioni e affetto da una sorta di fotofobia che gli fa vedere il sole nero, e che gli è stata provocata dalla pozione di una prostituta sua amica. La fantasia di Camilleri spiega in questo modo la particolare luce, e la eccezionale presenza dell’ombra nei dipinti dell’artista. La pièce di Gregoretti ha la forma del melologo, con il bravissimo Massimo Odierna che recita nelle vesti del protagonista dando voce al (falso) diario; gli altri personaggi non appaiono in scena ma soltanto nel video, proiettato sulla grandezza del palcoscenico, che segue la narrazione con immagini rallentate del pittore e degli altri personaggi- prostitute, modelle, giovani amanti. Il regista e scenografo Cristian Taraborrelli ha voluto rappresentare, secondo le sue parole, “gli attraversamenti da una figura all’altra, i movimenti che hanno preceduto il gesto immortalato, il perpetuo divenire immobile” colto nelle tele caravaggesche, di cui si scrutano le ombre, gli sfondi scuri e tutto ciò che è celato dietro le figure. L’organico musicale è costituito da otto strumenti, tra i quali una tastiera elettronica, e da due cori di quattro cantanti ciascuno. Come il testo di Camilleri è un “rifacimento” letterario in stile seicentesco, così il coro che accompagna la narrazione canta in perfetto stile madrigalistico, (ecco un altro falso) in alcuni momenti, mentre in altri viene usato in modo onomatopeico, come un’ estensione degli strumenti, o nello stile dello sprechgesang. Le voci sono utilizzate sia come soliste, per dar voce a personaggi reali o simbolici che altro non sono che voci interiori di Caravaggio, oppure come coro, che comunque dà voce all’interiorità del protagonista, alle sue emozioni, alle sue ossessioni e fobie, sposandosi perfettamente con la drammaturgia non propriamente narrativa dell’opera.

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