«Tempo qui ce n'è»

Diario del 19 giugno

Recensione
jazz
Giuseppino Piredda si affaccia nel portone che dà sul suo giardino. Mi fa un cenno con la mano e io mi avvicino. Mi chiede se sono io Paolo Fresu e mi invita a bere un bicchiere a casa sua. Accetto volentieri. Manca ancora un’ora all’arrivo di Stefano Bollani da Cagliari e io sono in giro per Lei, paesino di sole 600 anime abbarbicato sulla sinistra della strada che porta da Macomer a Nuoro. Nonostante tiri un forte maestrale la temperatura è calda. Tommy Onofri è già arrivato per preparare il Carro delle energie ed anche Antonio Leggeri che sta preparando il gazebo per il merchandising. Vedo un vecchio carro con delle balle di fieno e con la macchina incrociamo un giogo di buoi. Il “carrulante” mi riconosce e iniziamo a parlare della razza Modicano sarda e del fatto che di buoi non ce ne sono più. Mi chiede se ce ne sono a Berchidda e gli dico che l’ultima volta che li abbiano usati per seminare i semi di pietra di Sciola siamo stati costretti a farli venire da Perfugas spendendo 1.500 euro. Il team del service e delle luci è arrivato in mattinata e mi hanno detto che in paese sono tutti gentilissimi ma che la piazzetta appena ristrutturata forse potrà essere piccola per il nostro concerto. Luna Nieddu sta arrivando da Berchidda per portare materiale di proiezione per passare le immagini del concerto in un altro spazio nel caso in cui la gente sia veramente tanta.
Giuseppino ha una casa molto dignitosa e accogliente. Questa dà proprio sulla piazza dove terremo il concerto e il suo giardino si adagia poco sotto la nuova pavimentazione in granito. Si scusa perché la moglie è al lavoro. Anche la figlia è al lavoro ma verrà stasera. Mi fa accomodare e mi offre un vermentino fatto da lui con le uve di Bortigali: «L’anno scorso le ho prese da Badesi e prima ancora da Sorso - mi dice - ma il vino lo faccio io con le mie mani». Effettivamente è buono e scende giù bene. Mi faccio raccontare la sua vita in 20 minuti. Ora è in pensione ma prima è stato Generale dell’Aviazione per quindici anni a Mestre e poi a Macomer, a pochi chilometri da Lei. Provo a chiedergli perché questo paesino si chiama Lei ma non me lo sa dire come non me lo ha saputo dire nessuno. Alcuni scrivono anche Ley. Strano. Giuseppino abita nella casa di famiglia di sua moglie ma lui stesso ha un’altra casa poco più giù in paese. Durante la guerra fredda, quando l’Italia acquistò dagli Stati Uniti i nuovi sistemi di difesa, fu chiamato per specializzarsi nella missilistica e da elicotterista diventò altro senza che lui lo sapesse. Suo padre era pastore, suo fratello carabiniere e l’altro fratello finanziere. Il padre lo pregò di rimanere in campagna ma lui non ne volle sapere e fece domanda come militare. Quando lo chiamarono a Mestre lui chiese di essere mandato a Verona o a Venezia perché erano gli unici posti che conosceva. Per sapere dove era Mestre dovette comprarsi una cartina e fu così che scopri che Mestre era vicino a Venezia. “Allora ci vado”, pensò e così ci è stato per quindici anni. Lì si è sposato e lì ha avuto la prima figlia che ora ha trent’anni e che è fidanzata in un paese del Goceano mentre l’altro figlio, «per sua scelta - ci dice Giuseppino - è militare». Da Mestre è stato poi trasferito a Macomer e ora vive a Lei, fa il vino in casa e pensa alla famiglia a 65 anni che sembrano un po’ di più ma non troppi. Mi offre il vermentino in un boccione da due litri che posa su una tavola semi apparecchiata e coperta con una tovaglia in plastica a fiori. Entrando a destra c’è una stampante con diversi fogli ed un programma di “!50” con la mia faccia e la trombetta giocattolo di Andrea che gli autografo. Non so perché ma penso che forse era insegnante e per questo gli chiedo quale era il suo mestiere e lui parte con il racconto. Giuseppino ha gli occhi vispi ed è visibilmente contento dell’incontro con me. Faccio due o tre bicchieri e poi lo saluto per raggiungere il luogo del concerto. Lì mi aspettano Gianni.
Luca e Fabrizio che, una volta scoperto che ero da Giuseppino, si invitano a loro volta e lui ritira fuori il bottiglione di vermentino. «Mi raccomando - dice - alla fine del concerto ti aspetto per un saluto» e io rispondo che non andrò via senza essere ripassato da lui. Intanto arriva Stefano e con lui facciamo le prove del suono decidendo più o meno quali brani fare per la sera. Proviamo due cose sue che io già conosco e gli propongo il mio “Inno alla Vita” che legge in un attimo. Aggiungiamo un paio di standard e due canzoni compresa “Che serà serà” e il repertorio è pronto. Ci aspettano a cena a una decina di minuti proprio sopra il paese. Chi ci fa strada è Lucio Pintore con la sua Jeep e noi lo seguiamo con il Van di Alessio che si arrampica in una innumerevole serie di curve per raggiungere i mille metri. Gli arrostitori sono già al lavoro da diverse ore e la tavola è imbandita per una cinquantina di persone con bottiglioni di cannonau sparsi sulla tavola e altro. Anche qualche bottiglia di acqua ma soprattutto cannonau scuro e forte. Dopo gli antipasti arriva una pasta buonissima con malloreddus e sugo di salsiccia, poi il porcetto croccante con pinzimonio e poi ancora dolci tipici e melone buonissimo. Alla fine della cena la giovanissima Sindaco Marcella Chirra offre a me e a Stefano Bollani un enorme cesto pieno di dolci, formaggi, filuferru, vino, miele… Talmente grande che Stefano chiede se gli può essere spedito a casa. Lucio Pintore invece ci dona una “leppa” con il manico in osso. Una per me e una per Bollani. Gli dico che conosco bene Antonio Fogarizzu di Pattada e si inchina ma la sua leppa non è da meno e io so cosa significa regalare un coltello in Sardegna e un coltello come quello. Non mi trovo monete in tasca ma ne chiedo due a Salvatore Corona. Quaranta centesimi in due monete diverse che metto nelle mani di Lucio. Perché da noi, spiego a Stefano, se ti regalano un coltello devi dare una moneta. Non importa quanto vale. Prendo anche il suo biglietto da visita e scopro che anche lui scrive Ley e che non è un semplice appassionato visto che è iscritto alla Corporazione Italiana Coltellinai.

Quando arriviamo in piazza la gente è accalcata dappertutto. La maggior parte è seduta per terra ma ci sono persone anche sulle rocce e qualcuno sui tetti. Il maestrale si è un po’ spento ma quando tira fa un freddo della madonna. Dietro di noi si intravedono le luci delle ciminiere di Ottana. Forse non è molto poetico ma in quella sera anche quella sembra essere poesia. Si vedono le ciminiere di Ottana e le luci di altri paesi mentre il bianco delle cave di talco di Orani sono sparite con l’avvento della notte. Iniziamo il concerto con “Everything Happens to Me” e capiamo dal silenzio e dal successivo applauso del pubblico che sarà un viaggio bello. Poi suoniamo “Sicilia” di Stefano e io dico che è dedicata alla Sardegna e tutti ridono. Poi scherziamo su Lei dicendo che faremo un brano che si chiama “Voi”, anche “Vostè” come si dice da noi e che è mutuato dall’Ustedes spagnolo. Sull’introduzione di “Doodlin” di Horace Silver è la gente a portare il tempo con lo schioccare delle dita e il brano prende la forma del cabaret che Stefano ama tanto ma poi si ritorna subito su “Nuvole” di Modugno che lui canta al microfono. Con questo si chiude un altro bel concerto, nonostante le avversità del tempo. Come bis suoniamo il classico “All the things you are” e salutiamo il numeroso pubblico in ‘sala’ oltre a quello che ci sta vedendo in streaming.

Mi incammino verso la macchina di Roberto e penso che Giuseppino Piredda sarà già a letto e che mi dispiace non averlo potuto salutare. Invece lui è sulla porta ad attendermi. Stavolta a casa c’è anche la moglie e la figlia. «Seidi e invita puru sos cumpanzos tuos» mi dice. Gianni, Luca, Franceschino e Roberto entrano e a Giuseppino gli brillano gli occhi. Ci racconta nuovamente di Mestre, della cartina geografica e dei missili. Fa un cenno anche al Salto di Quirra ma il riferimento non è chiaro e non è l’ora adatta per leccarci le ferite. Intanto apre un altro bottiglione del suo vermentino e sul tavolo era già pronto un piatto di amaretti e una confezione di cioccolatini. Certo che ci aspettavano… Parlo con sua figlia. Mi dice che in zona non c’è niente e che Macomer sembra morta e che se si deve uscire l’alternativa è andare al Centro Commerciale di Pratobello alle porte di Nuoro. «Quando ti sposi» le chiedo. «Non lo so, dipende…» risponde lei. Usciamo all’una di notte con un “cogoneddu” di pane finemente ricamato dalla moglie di Giuseppino. Sembra una opera d’arte. Potrebbe essere un ricamo di pizzo o una filigrana mai vista prima.
«Ci vuole del tempo per farlo?» chiedo. «Tempo qui ce n’è» mi risponde la moglie di Giuseppino che ha l’aria di essere più giovane di lui e che ha gli occhi azzurri. «A un’atter’annu mezus - mi dice Giuseppino salutandoci -. Sappi che da oggi questa sarà anche la tua casa”.

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