Si chiude così

diario del 1° agosto

Recensione
jazz
Gavino Murgia è un barbaricino autoctono ma è ancora di più. E’ “Megalitico” come recita il titolo del suo ultimo disco. Perché megalitico è uno fatto di pietra e di una pietra passata che è lì da sempre e che può essere un semplice masso, un dolmen, un menhir, un nuraghe o una domus de janas. La sua voce grave risuona nel tempo e spacca le pietre quando il suo sax è invece irruento ma dolce come il suono delle launeddas che Gavino suona perché un megalitico suona e basta che gli strumenti sono stati inventati da poco e prima c’era solo la musica delle voci e delle canne. Gavino conosce alla perfezione la memoria del suono mediterraneo e sardo e conosce l’altro suono che naviga nei crocevia del mondo ed è un megalitico cosciente e contemporaneo. Nel 1989 venne alla prima edizione dei Seminari di jazz che organizzai a Nuoro assieme alla cantante lirica Antonietta Chironi che oggi non c’è più. Era uno dei pochi allievi che si presentarono. Suonava il sax da poco ma aveva una luce negli occhi che lasciava intravvedere un futuro luminoso e oggi “Bainzu” è uno dei musicisti più rappresentativi e invidiati della nostra Isola. Tra di noi parliamo rigorosamente in sardo. Lui il suo barbaricino e io il mio logudorese che non è distante dal suo. Non solo parliamo in sardo ma in lingua sarda scriviamo e-mail e altro utilizzando il suono ancestrale dell’isola alla quale tutti e due apparteniamo e in verità siamo anche concittadini visto che io cittadino onorario del capoluogo della Barbagia.
Bebo Ferra è invece di Cagliari e non parla né il lodugorese né il barbaricino ma ci capiamo bene e con lui parliamo in italiano anche se è “casteddaju” di San Benedetto e le parole le conosce come ne conosce le inflessioni. Quando Gavino “Bainzu” Murgia era ancora un bambino io e Bebo suonavamo a Cagliari al Rockhouse e Su Meriagu con Billy Sechi, che ora non c’è più e al quale questa mattina abbiamo dedicato un omaggio alle nove del mattino nella ‘sua’ piazza davanti al Teatro delle Saline con il pianista Paolo Carrus e con Bebo. E’ lì che io sono musicalmente nato grazie a Billy ed è lì che ho conosciuto i fratelli Bebo e Massimo Ferra, Francesco “Checco” Sotgiu, Piero Di Rienzo, Pierfrancesco “Checco” Loche e tanti altri musicisti. Da lì salivamo poi a Berchidda a inventarci concerti nelle scuole e a fare baldoria perché non era importante dove si suonava ma era importante suonare. Nei matrimoni, nelle feste, nelle scuole, nelle palestre… Questa mattina abbiamo omaggiato l’amico Billy Sechi prima di andare al Carcere Minorile di Quartucciu e sia a me che a Paolo Carrus ci è salito un groppo alla gola. Perché quando pensiamo a Billy pensiamo a una persona speciale che suonava come Elvin Jones e che era altruista e buono come il pane. Oggi la “Piazzetta Billy Sechi” è lì affinché non ci si dimentichi di lui e affinché i giovani possano trarne insegnamento. Abbiamo suonato i brani che Billy amava: “Bye Bye Blackbird”, “My Funny Valentine”, “Nows the Time”, “Stella By Starlight” e quando ho attaccato le prime note di “Lascia ch’io pianga” di Haendel che suonai al suo funerale nella Basilica di Bonaria non ce l’ho fatta ma poi ho detto “Viva Billy” e c’è stato un applauso di felicità perché chi se ne va lasciando cose preziose fa bene a chi resta e deve essere ricordato così, con un semplice applauso che è quello delle due figlie, della moglie Gabriella, della sorella Dolores, del fratello Ignazio e dei tanti amici, familiari e colleghi che sono presenti in questa mattina di fine luglio. Nel Carcere minorile di Quartucciu ci sono una quindicina di ragazzi. Solo due di questi sono sardi, uno di Sant’Elia e uno di Guasila. Gli altri sono di Bari, Reggio Calabria, Palermo… Ci sono anche due maghrebini che ormai parlano perfettamente in italiano e un po’ in sardo. Mi danno del lei e vogliono fare una foto assieme dietro il murales che sta nel cortile interno che prelude alla stanza dove suonerò con Bebo Ferra in acustico. Il Direttore Giuseppe Zoccheddu è contento e alle undici la piccola sala è gremita di ragazzi, operatori, autorità e altri compresa la nostra regista Marthe Le More e il nostro fotografo Gianfranco Mura. C’è anche il Direttore della Rai di Cagliari, l’ex Presidente del Tribunale dei Minori, Gianluigi Ferrero che è ora quello nuovo e più tardi arriva anche il neo Sindaco di Cagliari Massimo Zedda che sembra ancora più giovane degli anni che ha. Suoniamo un po’ di pezzi tratti dal repertorio dei “Devil” introducendoli uno per uno e alla fine parto con un Blues e invito tutti a battere le mani a tempo. Il bis proviamo a farlo decidere a loro ma alla fine non ci mettiamo d’accordo e attacco “Nel blu dipinto di blu” di Modugno che tutti conoscono e che per i quindici ragazzi che vivono nell’Istituto di Pena è un bel messaggio. Alla fine del concerto c’è un rinfresco e i ragazzi si vogliono fare tutti una foto con noi e vogliono sapere se siamo stati a Bari vecchia o a Vucciria a Palermo e io dico che sono stato dappertutto e snocciolo luoghi e nomi di teatri e di jazz club. Ci chiedono quanti soldi guadagniamo e se a fare il musicista si ‘cuccano’ tante donne e rispondiamo che dipende. Sia per i soldi e sia per le donne. Bebo che ama il calcio parla anche del Cagliari, del Milan e dell’Inter. Uno dei due maghrebini è di Casablanca e gli dico che la conosco perché vi ho suonato e che ho suonato in molte delle importanti città del Marocco che è un paese che amo. Parliamo un po’ in francese e un po’ in italiano fino a quando un altro ragazzo non lo prende in giro dicendo che tanto parla anche il sardo e bene pure. L’altro maghrebino di accascia durante il concerto perché è in ramadan e il suo assistente che è egiziano non riesce a convincerlo a prendere le medicine che gli servono. Alla fine una foto tutti assieme. Io e Bebo con tutti loro e con l’ex Direttore dove loro hanno solo l’aria di essere ragazzi normali e invece hanno talvolta condanne pesanti. Hanno l’aria di essere ragazzi normali perché portano scarpe normali e occhiali normali. Visi da ragazzi normali fuori e un tormento dentro che li attanaglia forse senza che abbiano colpe che non siano quelle ereditate da altri veri colpevoli che talvolta sono le famiglie e talvolta la società nella quale sono cresciuti. Sandro Marilotti che è il Direttore del Centro Giustizia Minorile della Sardegna mi spiega che i ragazzi sono pochi perché i giudici sardi sono quelli che applicano le nuove direttive alla regola dando ai ragazzi l’opportunità di poter vivere in comunità piuttosto che in carcere e ciò ci sembra cosa buona. Sa Domu ‘e s’Orcu di Siddi è un altro posto megalitico posto sulla Giara di Siddi e dunque perfetto per il concerto in trio con Bebo Ferra e Gavino “Bainzu” Murgia del giorno prima. Nonostante il concerto sia alle 19.30 per problemi di viabilità alle 17.30 ci sono già diverse centinaia di persone. La tomba è uno dei più straordinari esempi di architettura funeraria nuragica della Sardegna ed è edificata nella località denominata Nuraghe Tuvudu. Sono grandi blocchi di basalto allungati e sovrapposti a secco come in un nuraghe ma l’edificio è diverso e per entrarci fai fatica. La tomba mostra una planimetria a forma di protome taurina, con un corpo centrale allungato chiuso a semicerchio nella parte posteriore e l’abside che presenta un’altezza residua di oltre 3 metri. Vista la presenza di molte persone ben prima dell’inizio del concerto e visto che con Gavino e Bebo abbiamo giusto fatto una registrazione a Bologna un paio di anni fa ho chiesto se potevamo avere una saletta per provare un po’ la musica e dunque ci siamo ritrovati dietro sa Domu ‘e S’Orcu a tirare fuori partiture e a solfeggiare con la voce mentre la gente si installava dall’altra parte. Quello era anche il nostro camerino megalitico.
Le birre fresche le poggiamo sulle pietre del retro della tomba o per terra e sembrano fuori luogo se Ichnusa non fosse anche il nome antico di quell’isola e se dunque tutto non tornasse come in una tesi di antropologia che però non convince. Iniziamo il concerto con il mio “S’Inguldu” e proseguiamo con “Pane Pintau” di Bainzu e poi proseguiamo con “Ehia” e con improvvisazioni varie dove Bainzu si alterna tra il sax e la voce bassa e gutturale che a volte sembra un contrabbasso e altre una voce mongola che va a spasso per il mondo. La luce del giorno sparisce dietro Sa Domu ‘e S’Orcu e il cielo si fa rosso vivo. Pare sia uno spettacolo. “Hai visto che il sole è calato proprio dietro il tuo brano?” mi dice qualcuno. Rifletto sul fatto che io in questi cinquanta giorni i tramonti e le luci del cielo non le ho mai viste perché davo le spalle al sole ma mi piace l’avere suonato a tempo con un timing dettato dalle ore e non dal beat della musica. A fine serata la fila delle macchine è immensa e si blocca il traffico per qualche ora. Dalla tomba vediamo una fila immensa di fari rossi in successione che aspettano. Chissà come era lì alcuni millenni fa e se quel rosso dei fari non potrebbe assomigliare a mille e mille torce di sardi ebbri che andavano via dalla festa e dal rito della sepoltura. A Siddi mangiamo per strada in due tavoli rotondi imbanditi come fossimo nel migliore ristorante. Il nostro concerto era ospitato in seno ad un festival sul cibo e tutti mangiano per strada in lunghe tavolate preparate dagli abitanti o in tavoli speciali come il nostro. Per noi cucina un cuoco sloveno e cucina bene. Alla fine della cena va via con i suoi attrezzi di lavoro perché la casa gli è stata imprestata da una famiglia normale che per quella occasione speciale si è riunita con figli e figlie e nipoti arrivati dal Continente e che sembrano essere contenti di essere stati occupati da un cuoco sloveno e da una banda che di musicisti e tecnici che ha appena suonato a Sa Domu ‘e S’Orcu. Stasera dormiamo a Cagliari. Domani alle nove c’è l’omaggio a Billy Sechi nella Piazza a lui dedicata. Non si può arrivarvi distrutti perché deve essere una festa. Il dubbio del Teatro Lirico è se suonare con le scarpe o se suonare scalzo. Ci penso a lungo e mi consulto con Franceschino Carta che farà le luci di “A Solo!” e mi dice che se mi vesto di scuro è meglio. Rovisto nella valigia che mi accompagna ormai da cinquanta giorni e trovo solo magliettine e camicie colorate o lavorate al pizzo. Nessun pantalone nero e nessuna scarpa ahimè. Per cinquanta giorni ho girato in sandali perché il sandalo è l’unico calzare che ti dà l’impressione di essere con i piedi per terra. Non è un eufemismo ma una necessità… Telefono a mia madre e le chiedo di farmi portare da Tonino, che verrà al concerto con mio padre, un pantalone nero elegante e l’unico paio di scarpe eleganti che posseggo. Anche una cintura nera, aggiungo al telefono in sardo. Una “chiltonza”. Le prove non sono troppo lunghe. Vic Albani prova le basi che dovrà mandare al mio cenno e Gianni e Franceschino montano le luci con l’aiuto di Adriano Pisi. Fabrizio dall’Oca setta l’impianto che oggi non è quello nostro e Luca Devito coordina il tutto mentre all’esterno Tommaso e Irene montano il Carro delle energie e Salvatore Corona prepara il catering con i vini della Cantina Trexenta e con i dolci e la “grappa in jazz” di Rau di Berchidda. Ho voluto fortemente che ci fossero anche Valeria e Andrea Troncia con il piccolo Mattia che vendono anelli, collanine e altri monili fatti da loro perché si sono accodati a noi al concerto di Allai e da allora non ci siamo mai lasciati e stasera devono esserci tutti, compreso il banchetto di Amnesty International perché stasera è l’ultima sera ed è la festa di tutti. Sonia e Andrea arrivano da Berchidda con mio padre e Tonino. Loro rimarranno dietro il palco mentre a mio padre viene data una poltrona in fila 13. Il teatro è gremito e il pubblico è quello delle grandi occasioni. Sappiamo dai messaggi del nostro Facebook che c’è in “piccionaia” anche il pubblico degli streamers e degli aficionados. Fuori dal teatro passerà il concerto in diretta alle proiezioni sul muro del Lirico con le immagini dei 50 giorni trascorsi. Così il pubblico che non è in sala potrà sentire anche i suoni seppure lo spettacolo di questa sera sia per le orecchie che per gli occhi. Alle 21.15 arrivo in teatro con il passeggino di Andrea. “Concerto anche stasera, papà?” mi chiede. “Concerto anche stasera” gli rispondo e lui sorride e io sorrido. Luca e gli altri vogliono fare il rito cabalistico del conto dei giorni passati e di quelli che mancano perché dopo le prove non lo abbiamo fatto. Stavolta conto fino a cinquanta e quando gridano in coro “e quanti ne mancano?” e io dico zero c’è l’applauso e le persone del teatro che sono vicine a noi avranno pensato che siamo scemi e un po’ è vero. Scemi ma contenti. Salgo sul palco vestito con i pantaloni neri e con la camicia bianca che mi ha regalato il sarto di Orani Gianni Mura quando abbiamo suonato per l’inaugurazione della nuova ala del museo Nivola che sembra una vita fa. Inizio con “Sos Laribiancos” scritto per la pièce teatrale di Cada Die tratta dal libro di Francesco “Cicitu” Masala con il quale avevo un patto segreto che lui si è portato nella tomba. Proseguo con “Domus de Janas” tratta da “Homescapes” con Nguyên Lê e poi mi sposto sul microfono posto di lato al palco per improvvisare sopra una lunga serie di note lunghe registrate precedentemente con l’harmonizer. Quando Vic lancia “Tema della Buona Aria” con il Quartetto Alborada e Diederik Wissels tratto dal film “Te lo leggo negli occhi” di Valia Santella lascio l’immenso palco da solo e Luca mi accompagna in “piccionaia” in 90 secondi. Novanta secondi di scale, foyer, scale ancora e un ascensore che ci ha portati fino in cima e lì mi sono tolto le scarpe e le calze che non servivano che mi sentivo solo. Ho suonato da solo in sol diesis minore per loro. Quelli che erano in cima dove il biglietto era meno caro e perché sapevo che erano il nostro zoccolo duro che ci aveva supportato in tutto il tour.
Lo zoccolo duro degli aficionados e quello degli streamers che ogni giorno c’erano, seduti per terra davanti a noi o la sera con il computer. E che quando lo streaming non era possibile per problemi tecnici o per mancanza di linea erano un po’ tristi e magari si davano appuntamento sul Facebook per andare a mangiare una pizza con amici conosciuti e a volte con quelli mai visti prima perché la musica mette insieme il mondo. Il primo applauso è scattato lì, in piccionaia con loro. Un applauso non doveva esserci se non alla fine ma quello era il loro modo di partecipare a ciò che abbiamo vissuto assieme e andava bene così. Le scarpe rimangono in ascensore. Perché ora abbiamo poco meno di un minuto per scendere 7 rampe si scale e per ripartire sul palco prima con la voce di Miles Davis e poi con la trance dei Gnawa del Marocco che preludono a “Trioon 1” di Ryuichi Sakamoto. Ancora un brano con il Quartetto Alborada stavolta con la sordina sull’altra parte del palco e poi una nota lunga infinita e filata nel passaggio luminoso obbligato disegnato da Franceschino per chiudere ancora con “Domus de Janas” con il sampler dell’Ave Maria cantata dal Cuncordu di Santulussurgiu e filtrata con il vocoder in Boulevard Magenta a Parigi.
Il concerto si chiude dopo più di un’ora e io sono grondante di sudore. Non so se è per il caldo o per l’agitazione dell’ultima sera di “!50”. Eppure il solo, seppur sia difficile e una sfida, l’ho fatto altre volte e altrove ma stasera è un vero solo davanti ai sardi nel Teatro Lirico di Cagliari che non è né un nuraghe né un tempio dove mi sentirei forse più a casa. A casa con i piedi sulla terra nonostante ora stia ringraziando scalzo ma con i piedi sul legno di un palco. Il bis sarà prima una improvvisazione su “Round Midnight” di Thelonious Monk e poi ancora “Passavamo sulla terra leggeri” di Sergio Atzeni letto da Lella Costa ma registrato a Uta in seno a “!50”, sembra un anno fa ma non è così. “Eravamo felici.” recita Lella. “Le piane e le paludi erano fertili, i monti ricchi di pascolo e fonti. Il cibo non mancava neppure negli anni di carestia. Facevamo un vino colore del sangue, dolce al palato e portatore di sogni allegri. Nel settimo giorno del mese del vento che piega le querce incontravamo tutte le genti attorno alla fonte sacra e per sette giorni e sette notti mangiavamo, bevevamo, cantavamo e danzavamo in onore di Is. Cantare, suonare, danzare, coltivare, raccogliere, mungere, intagliare, fondere, uccidere, morire, cantare, suonare, danzare era la nostra vita. Eravamo felici, a parte la follia di ucciderci l’un l’altro per motivi irrilevanti!”. Ringrazio il pubblico e dico che sono fiero di essere sardo e l’ho capito ancora di più grazie a questi cinquanta giorni straordinari e irripetibili. Attacco con i ringraziamenti letti dai due fogli che mi sono portato in giro per tutto il folle tour. Fogli ormai sgualciti e sporchi con aggiunte a penna e a matita, nomi addizionati nel percorso e altri barrati. Con tracce di insetti e di terra, cacche di pecora e foglie. Sono fogli che raccontano più di qualsiasi altra cosa e lo dico mentre salgono sul palco Franceschino, Fabrizio, Luca, Adriano, Gianni, Bimbo… Salgono e iniziano a smontare il palco togliendo cavi, casse, monitor, effetti, microfoni. Intanto mentre leggo mi imbragano e vedo il mio flicorno per terra come unico oggetto protagonista come fosse la prima donna di un’opera lirica.
Lo prendo e inizio a suonare ancora volando verso l’alto tirato da due corde di acciaio mentre il sipario di abbassa. Quando si riaccendono le luci in sala il popolo degli streamers, del Facebook e degli aficionados è lì in piedi con le persone normali che vanno ai concerti normali e che si stanno chiedendo cosa sta succedendo e forse anche perché sono lì o forse no. Alcuni hanno degli striscioni, più di uno, e io sto con la testa bassa perché devo tutto a loro. Con la testa china in segno di riverenza fino a quando non arriva il piccolo Andrea a ricordarmi che il mondo è soprattutto da guardare in alto. “!50” si chiude così e con una bella dedica a mio padre che è lì in fila 13. Ottantasette anni lui, tre e mezzo Andrea, cinquanta io. La notte andiamo a cena tutti assieme e facciamo festa in spiaggia e io tiro ancora fuori la tromba per accompagnare il karaoke di Lorenzo, il nostro autista, che si è preparato per una intera settimana la versione di “Dune Mosse” di Zucchero con la tromba di Miles Davis. “A me l’intelligenza mi è venuta da grande” diceva Lorenzo e noi giù a ridere come dei matti. Anche la notte di Monte Maccione una vita fa quando eravamo lì per Mathias che non c’era più e siamo rimasti fuori a cazzeggiare fino a notte fonda con David Linx, Diederik Wissels e Lorenzo Fanari che dice che a lui l’intelligenza gli è venuta da grande. La mattina dopo partiamo per Berchidda. Ci fosse stato Billy sarei andato a salutarlo come ho sempre fatto ma non c’è più e mancano tante cose della Cagliari che ho conosciuto e che mi ha fatto grande ma so anche che mi porto appresso tanto e ne sono fiero. Usciamo dal T-Hotel con mille valigie e mille regali. Chiedo a mio padre se è stato bene in albergo. “Già è un bel locale” mi risponde “mi è sembrato uno dei più belli di Cagliari”. “Telefona a Maria e fai preparare un po’ di ‘angelottos’ per pranzo” mi dice mentre accarezza Andrea con le mani ruvide da pastore.

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