Saalfelden 3 | Questione di scelte

Il bilancio dell'edizione 2013 del festival austriaco

Recensione
jazz
Il dress-code della mattina del dì di festa, qui a Saalfelden, è maglione e giacca a vento, con una pioggia sottile che punteggia di aghi argentati lo sfondo degli abeti sulle montagne. Poco male, perché ormai il Festival è a regime e il programma si presenta intenso anche in questa giornata conclusiva.

Apre le danze il settetto Grund del batterista tedesco Christian Lillinger: tecnica nervosa e inconfondibile ciuffo rockabilly, il giovane musicista è un leader già maturo e la musica di questo gruppo (caratterizzato dalla presenza di due contrabbassi, due sassofoni, piano e vibrafono) si muove secondo architetture molto interessanti. Incastri ritmici e complesse relazioni tra gli strumenti si alternano a oasi quasi puntillistiche in cui i riferimenti sono a volte più quelli di una ricerca colta novecentesca che la tradizione jazzistica. Grazie all’apporto di tutti i musicisti – tra cui l’esperto sax tenore di Tobias Delius – il concerto è davvero convincente.

Il tempo di un caffè ed è già ora del violoncellista olandese Ernst Reijseger, con il trio Down Deep. Se il rapporto con il cantante senegalese Mola Sylla è cementato da anni di collaborazione e da una profonda affinità, mi lascia perplesso il terzo vertice del triangolo, il pianista Harmen Fraanje. Nulla di personale, chiaramente, ma avendo conosciuto le potenzialità del progetto quando al posto del piano c’erano le percussioni di Serigne Gueye, credo che la forza della musica venga profondamente smorzata da questo nuovo assetto. Le splendide tensioni tra violoncello e voce, che hanno una immediatezza quasi ancestrale, trovano nel pianoforte un elemento che ne addomestica le energie, iterando banali frasi quasi nymaniane o calligrafiche sottolineature che, alle mie orecchie, hanno un sapore quasi "colonialista". Il pubblico apprezza comunque, ma quello che poteva essere un appuntamento memorabile si rivela alla fine nulla più di una sofisticata operazione.

Mancano solo tre concerti e se qualcuno si fosse affrettato già a decretare la propria classifica di gradimento è costretto a fermare le rotative: arrivano gli Angles 10 del sassofonista svedese Martin Küchen! Musicista poliedrico e intelligentissimo, band travolgente di cui in Italia sembra non accorgersi quasi nessuno e che invece meriterebbe di portare la propria musica in ogni piazza e in ogni teatro. Dieci elementi tra i migliori del jazz scandinavo (c’è la tromba di Magnus Broo, il trombone di Mats Aleklint, una sezione ritmica come quella formata da Berthling e Nordeson cui si aggiunge una seconda batteria con Andreas Werkliin, il vibrafono di Mattias Stahl), un repertorio che chi li conosce attende come fossero delle vere e proprie hit. Temi come "By The Way Of Deception", "Every Woman Is A Tree", "Today Is Better Than Tomorrow" sono lunghe strutture pulsanti che veicolano una musica di stupefacente immediatezza. C’è la lezione del Charlie Haden orchestrale, c’è l’ancient to the future dell’Art Ensemble of Chicago, c’è il fantasma di Fela Kuti che flirta con Morricone, il Messico gemellato coi Balcani, il free storico scandinavo che si ritrova a danzare a una festa di paese. Musica collettiva, d’amore e rabbia, che cresce e avvolge con andamento innodico, accolta da vere e proprie ovazioni del pubblico. Se solo le sedie si smaterializzassero all’istante… sarebbe una grande danza condivisa. Sul podio, a occhio e croce anche sul gradino più alto!

Dopo una simile ondata di energia non è facile resettare orecchie, cuore e pancia, anche se il menu serve subito un piatto molto raffinato come il quartetto del chitarrista Brandon Ross. Con lui ci sono la tromba (un modello customizzato chiamato "sattva") di Ron Miles, il basso di Stomu Takeishi e la batteria del sempre eccezionale Tyshawn Sorey. È una musica dai tratti sempre originali, quella di Ross (che imbraccia anche il banjo e canta), con momenti convincenti e ben calibrati sulle grandi potenzialità dei compagni di avventura, anche se complessivamente dà a volte l’impressione di non avere una direzione precisa. Comunque bello e applaudito.

Gran finale con il progetto Gershwin dell’Ensemble di Uri Caine. Chi conosce il pianista di Philadelphia sa bene quanto un autore come Gershwin possa essere congeniale alla ecletticità delle sue riletture. L’essenza americana della musica – come era già chiaro nel bel progetto The Sidewalks Of New York - è un elemento che Caine smonta e rimonta con grande abilità e divertimento, come accade con la "Rapsodia in Blu", complici il clarinetto di Chris Speed, la tromba di Ralph Alessi e il violino di Joyce Hammann, nonché la coppia ritmica Mark Helias/Jim Black. Tocca poi alle voci di Theo Bleckmann e Barbara Walker, volutamente molto differenti per carattere e colore, il compito di trasportarci nel canzoniere gershwiniano, con eleganza e qualche tocco di imprevedibilità, sospinti da un pubblico che trova in Caine e compagni la più confortevole delle chiusure del cerchio del festival: quella nel cuore stesso di quel jazz di cui si sono attraversate tante forme e declinazioni.

Il bilancio di questa edizione 2013 di Saalfelden è complessivamente molto positivo: importante è che un festival rischi ed è accaduto, con alterne vicende, come è da mettere in conto; che presenti proposte altrimenti difficili da incontrare e la presenza di molte formazioni numerose è un segnale deciso in questo senso; che trasmetta al pubblico alcune urgenze del fare jazz oggi. Qui ce lo si può permettere (e nella pur ampia platea si stenta a trovare un posto libero, tra vecchi appassionati mitteleuropei con chili di troppo e un gran bisogno di un personal stylist, signore eleganti e ragazzi alla scoperta di suoni nuovi) e le istituzioni hanno ribadito – nei saluti di rito – che il loro sostegno non verrà meno.

Poi si riprende la macchina e bastano un paio d’ore per rientrare in uno dei paesi europei che investe meno denaro pubblico nello spettacolo dal vivo. E dove è diventata una convinzione – da ribadire con aria a metà tra il rassegnato e un complice "beh, io lo so come va il mondo" – l’ingenerosa massima che il pubblico non sia in grado di apprezzare certe proposte e formarsi un gusto che vada al di là del sorriso fintamente swingante di qualche cantante sanremese.

Questione di scelte.

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