Saalfelden 2025, nomi da segnare e jazz in provetta

Come sempre il piccolo-grande festival austriaco restituisce lo stato dell'arte del jazz

LC

10 settembre 2025 • 7 minuti di lettura

Foto di Matthias Heschl
Foto di Matthias Heschl

Saalfelden, Austria

Saalfelden 2025

21/08/2025 - 24/08/2025

A cosa serve un festival? Bella domanda. A farsi un'idea, in linea di massima. Nel caso di Saalfelden, a farsi un'idea dell'aria che tira nel quartierino di quelli del jazz. Che ogni anno, subito dopo Ferragosto, si danno appuntamento sulle Alpi austriache per tenere fede a un patto che si rinnova da 45 edizioni. D'altronde il punto d'osservazione è privilegiato, con quattro giorni di concerti a tappeto che garantiscono la possibilità di sentirsi davvero al centro del mondo-jazz. Magari non come ai tempi del mitico tendone ai margini del bosco o dei programmi faraonici, quando a Saalfelden erano i grossi nomi a rubare l'occhio, quando i concerti che da soli valgono il viaggio erano almeno una decina, ma comunque dall'alto di una direzione artistica che è sempre riuscita a distinguersi per integrità e coraggio.

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Meno stelle, più stelline oggi. Con un occhio di riguardo per la scena europea, scandagliata con l'attenzione di chi ha voglia di spingere sotto i riflettori i talenti futuribili. Un mestiere rischioso quello dello scopritore di giovani, soprattutto in un circuito festivaliero che le politiche para-protezionistiche di enti culturali e istituzioni varie, ormai dominanti a livello continentale, stanno trasformando in un sottosopra autoreferenziale.

L'impressione è che abbia preso ormai piede una generazione di jazzisti in cattività, abituati a muoversi tra bandi, commissioni, produzioni speciali, inviti, concorsi, finanziamenti, scuole di musica e conservatori, tour promozionali e gruppi nati attorno ai tavolini dei “facilitatori” (un esercito crescente) più che sui palchi o nelle sale prove. Jazz in provetta, insomma.

In che senso? L'impressione, anche all'indomani di Saalfelden 2025, è che abbia preso ormai piede una generazione di jazzisti in cattività, abituati a muoversi tra bandi, commissioni, produzioni speciali, inviti, concorsi, finanziamenti, scuole di musica e conservatori, tour promozionali e gruppi nati attorno ai tavolini dei “facilitatori” (un esercito crescente) più che sui palchi o nelle sale prove. Jazz in provetta, da sfoggiare nelle vetrine comandate, con buona pace di una musica che si dovrebbe nutrire di relazioni spontanee, di alchimia da strada, da contatto, di affinità istintive e non pilotate. Intendiamoci: non che non ci sia bisogno di sostegno, della mano benedetta dei fondi più o meno pubblici, dell'associazionismo virtuoso, ma forse certi meccanismi di tutela costante e forzata, di interventismo (e di protagonismo) spinto, vanno ripensati e ricalibrati.

Il rischio è quello di trasformare il jazz in una musica addomesticata, inoffensiva, sterilizzata: carta da parati di lusso per i salottini neoborghesi, un vuoto a perdere con scarsa consapevolezza storica e ancora meno capacità di aderire al presente (e di immaginarsi nel futuro). Fare sistema è cosa buona e giusta, purché il sistema resti un mezzo e non diventi il fine.

Del meglio del nostro meglio

Non a caso le due esibizioni da copertina sono quelle di due band con un percorso fatto di chilometri macinati sulle strade giuste e di mestiere vero. La prima: l'ora abbondante di minimalismo free jazz del quartetto Ahmed, all'anagrafe Pat Thomas (pianoforte), Joel Grip (contrabbasso), Antonin Gerbal (batteria) e Seymour Wright (sax contralto). Punto di partenza "African Bossa Nova" di Ahmed Abdul-Malik, tra i primi a guardare al continente degli avi e nume tutelare della formazione nata e diventata grande nella pancia del Cafe OTO di Londra (locale finito sul tappeto rosso degli ultimi Oscar grazie a Daniel Blumberg e alla colonna sonora di "The Brutalist"); punto di partenza "African Bossa Nova", si diceva, ma l'ispirazione nell'idea di musica di Pat Thomas e compagni è "solo" un pretesto ideologico: il flusso continuo di reiterazioni ossessive e scarti minimi, di sfasamenti e propulsione incessante, ha confermato che gli Ahmed stanno in una categoria a parte.

L'impressione che suscitano la totale assenza di interplay (nel senso classicamente jazzistico del termine), la rinuncia agli spazi per gli assoli, al concetto di sviluppo racchiuso tra un inizio e una fine, è quella di un eterno presente che continua a muoversi pur non andando da nessuna parte, di una meditazione sull'idea di ritmo che si autorigenera all'insegna dell'anti virtuosismo e della rigorosa astrazione; un jazz che ha il suono dei dischi ESP (immediato e inevitabile termine di paragone: il quartetto di Frank Wright con Bobby Few, Alan Silva e Muhammad Ali), che non rinuncia a evocare le ombre amiche di Bud Powell, Monk e Cecil Taylor, che riesce a coniugare il ritualismo sciamanico dei Necks con il misticismo di Pharoah Sanders e John Coltrane, che sa allo stesso tempo di liturgia ancestrale e di ipotesi danzante per il futuro. Recuperare per credere il cofanetto quadruplo Giant Beauty, anche se mai come in questo caso la dimensione live è l'unica davvero plausibile.

Esibizione che ha lasciato il segno numero due: il trio Weird Mouth, ovvero Craig Taborn (pianoforte), Ches Smith (batteria) e Mette Rasmussen (sax contralto e soprano). Anche qui un immediato riferimento: il trio di Cecil Taylor con Jimmy Lyons e Sunny Murray. Dal passato al presente con il medesimo grado di libertà, con la stessa lucidità nel declinare tutte le possibilità dell'improvvisazione. Al centro dell'uragano il suono da fine del mondo dei sassofoni, affilato e dritto come una lama d'acciaio, profondo e scuro come il mare del Nord; tutt'intorno l'agitarsi inquieto della batteria e l'abilità di Taborn di fare le cose giuste anche a costo di rinunciare alla prima fila. Risultato: non un secondo da archiviare come riempitivo, a dimostrazione del fatto che quando ci sono maestria e consapevolezza il free jazz è senza tempo.

Un nome da segnare e un quartetto micidiale

Iniziamo dal nome da segnare: Teis Semey. Chitarrista danese che finisce dritto nell'elenco delle scoperte fatte grazie al coraggio di Saalfelden. Non che fosse un inedito assoluto nel giro del nuovo jazz, ma quanto ascoltato in Austria è andato ben oltre le attese. Ottima e abbondante la prova del duo Raw Fish in versione extra large, allargato all'ospite di lusso Jim Black, alla tromba di Adam O'Farrill e a due sassofoni, con la batteria dell'altro membro originale Giovanni Iacovella a completare la line-up; ancora meglio il passaggio sul main stage del quintetto En Masse!, con José Soares al contralto, Jesse Schilderink al tenore, Jort Terwijn al contrabbasso e Hong Sun-Mi alla batteria: una sferzata di energia punk-jazz ad altissimo voltaggio, con il capobanda a sferragliare sulle sei corde con il piglio anarchico del John McLaughlin prima maniera o del Sonny Sharrock dei tempi d'oro (e se non è un complimento questo...).

La band micidiale: i Bad Plus Dave King e Reid Anderson con Craig Taborn al pianoforte e Chris Potter al sax tenore. Livelli altissimi e inarrivabili per il resto dei normali. Anche perché il quartetto di stelle ha deciso di brillare sul repertorio del Keith Jarrett americano, quello dei dischi con Dewey Redman, Charlie Haden e Paul Motian (da best of dell'edizione 2025 una versione dolcissima e straziante di "Silence"); scelta simile a quella fatta di recente da Branford Marsalis per la rivisitazione pubblicata su Blue Note di Belongig, prima uscita ECM del quartetto europeo di Jarrett: evidentemente qualcosa si muove a livello di stratificazione del repertorio.

Tantissimo altro da ascoltare

Citazione d'obbligo per il settetto della vibrafonista Patricia Brennan, emanazione diretta di uno dei titoli più presenti nelle liste di fine 2024: Breaking Stretch. Avant-latin da professorini di Brooklyn affidato a un gruppo di interpreti fantastici: Jon Irabagon, il mai meno che ottimo Mark Shim e Adam O' Farrill ai fiati, Kim Cass al basso, Dan Weiss alla batteria e Keisel Jimenez alle percussioni. Dal Messico a New York passando per un'idea di jazz dalle trame fitte, dalla scrittura spigolosa, frastagliata, precisissima, adagiata su tappeti ritmici trascinanti e sinistramente esotici. Tutti bravissimi, tutto giusto, ma un po' claustrofobico e freddino. Altra citazione inevitabile per gli Ancient to the Future della chitarrista Ava Mendoza, con Hamid Drake alla batteria, Majid Bekkas al gimbri e alla voce e Xhosa Cole al flauto: i Grateful Dead in gita in Marocco non sono mai stati così desertici e così jazz. Decisamente più festoso il contributo del sestetto (Exit)Knarr dell'infaticabile Ingebrigt Håker Flaten e del quartetto di Tomoki Sanders (figlio di cotanto padre Pharoah), mentre con la trombettista inglese Laura Jurd lo sguardo si è spinto fino al folklore della terra d'Albione e al verde dei prati irlandesi.

Premio "pensavo meglio" alla Bida Orchestra della già citata Hong Sun-Mi, che alla luce dei nomi coinvolti (John Edwards, Mette Rasmussen, John Dikeman) non è mai riuscita a decollare sulle ali di una serie di composizioni tanto fragili quanto pretenziose. Infine il trio HIIT di Simone Quatrana (pianoforte), Andrea Grossi (contrabbasso) e Pedro Melo Alves (batteria), pronipoti della generazione di improvvisatori radicali che tra anni Sessanta e Settanta si è dedicata alla ricerca sul suono nell'istante. Dedizione e coraggio le parole d'ordine, con la voglia giusta di mettere tutto in discussione, di spingersi verso l'ignoto. Intenzioni serie. Forse un po' troppo per una pratica che ha bisogno anche di leggerezza, di giocosità. Stringere meno la presa in questi casi può essere una buona idea.