Ritorno a Saalfelden
Il più ricco fra i festival sperimentali (o viceversa) torna per il 2023, fra scoperte e conferme
Ritorno a Saalfelden. Dopo la lunga parentesi del Covid e dopo qualche giro a vuoto (da parte di chi scrive).
– Leggi anche: Il 40° Saalfelden è praticamente perfetto
Un po' come tornare a casa, anche se il festival della cittadina austriaca in questi ultimi anni si è assestato su coordinate leggermente diverse rispetto al passato, allargando lo spettro delle proposte a eventi collaterali e pensate alternative (camminate nel bosco, concerti galleggianti, spettacoli gratuiti nel verde, officine dismesse e antiche residenze aperte al pubblico: il famigerato territorio, a quanto pare, chiama anche al di là delle Alpi).
Senza però tradire la vocazione per il tutto esaurito del main stage, il centro congressi da un migliaio di posti attorno al quale gravita il programma (venduto il 98% dei biglietti, con oltre 20mila presenze complessive), e senza trascurare il palco del Nexus, il moderno teatro che accoglie le esibizioni di contorno piazzate all'inizio di ciascuna giornata (con criteri spesso discutibili, ma d'altronde qualche scelta bisogna pur farla); un esempio virtuoso a livello di coraggio nella direzione artistica e di puntualità nella gestione di una macchina molto complessa (parliamo di 830mila euro di budget per il 2023).
Insomma, la solita stella polare nel panorama europeo, anche se il pubblico di riferimento è sempre più quello degli over 50 (giovani e giovanissimi ci sono, ma il prezzo degli abbonamenti e dei biglietti non aiuta certo il ricambio generazionale), e anche se ogni tanto la voglia di avere uno sguardo globale a tutti i costi si traduce in qualche cantonata (meglio sbagliare azzardando comunque che morire di localismo da pro loco o ripetersi all'infinito come succede dalle nostre parti).
Ritorno a Saalfelden, dicevamo, tra conferme, sorprese e tanto, tanto da ascoltare.
Il Giappone non è poi così lontano
Alla voce “meraviglia” giusto archiviare la tripla occasione offerta a Michiyo Yagi, virtuosa del koto (strumento a corde celebre per essere stato a lungo un'esclusiva della corte imperiale) atterrata in Austria con il fedele Tamaya Honda, batterista con il quale collabora nel progetto Dojo. Primo passaggio per i due sul palco del Nexus, con il chitarrista norvegese Eivind Aarset; seconda esibizione fuori sede, tra ingranaggi, lattine di olio e copertoni giganti, con un altro norvegese, il bassista Ingebrigt Håker Flaten; ultimo concerto in orbita main stage, per un emozionante faccia a faccia tra la sola Yagi e il batterista Hamid Drake.
Che dire? L'utilizzo di pedali ed elettronica consente alla musicista giapponese di trasformare il koto in un generatore di suoni, di spaziare tra il fascino antico della tradizione, evocata grazie anche alla splendida voce, e una modernità fatta di noise, free jazz e meta-folklore (non a caso in passato ha attirato l'attenzione di avventurieri come Peter Brötzmann, Joe McPhee ed Elliott Sharp).
Decisamente a tutto volume l'incontro con Håker Flaten (devastante al basso elettrico), anche se è stato il dialogo a tutto cuore con Drake – maestro di umanità e di gioia applicate all'arte dell'improvvisazione – a segnare il punto più alto delle tre esibizioni (e uno dei punti più alti dell'intero festival): dalle spiagge di Okinawa a quelle Surf della California di Dick Dale, da Don Cherry ad Alice Coltrane e Dorothy Ashby, passando per il Sahara, i vicoli di Kyoto e i sobborghi di Chicago, una perfetta dimostrazione di come il jazz riesca ancora a essere il luogo in cui le distanze impossibili si fanno linguaggio condiviso.
Il free è vivo e lotta insieme a loro
Anna Högberg e Zoh Amba. Dalla Svezia la prima; dal Tennessee, via New York, la seconda. Sassofoniste entrambe (contralto e tenore), con gli anni Sessanta e la rivoluzione free sulla punta della dita. Della Högberg, portata alla ribalta dalla Fire! Orchestra di Mats Gustafsson, si erano un po' perse le tracce dopo lo strepitoso exploit di Lena, seconda prova sulla lunga distanza del sestetto Attack (che anche noi avevamo scelto come uno dei migliori dischi del 2020). Tre primavere dopo, sul palco di Saalfelden è ripartita dalla stessa band (Elin Forkelid al sax tenore, Niklas Barnö alla tromba, Lisa Ullén al piano, Elsa Bergman al basso, Anna Lund alla batteria) e dal medesimo repertorio: un concentrato di furore new thing con squarci di Coltrane e lampi di Ayler, una dimostrazione di forza e di lucidità impreziosita dalle svisate taglienti del contralto acidulo della Högberg, erede di timbro dei vari Marion Brown, John Tchicai e Charles Tyler.
C'è da riprendere il ritmo e da levarsi un po' di ruggine di dosso, è vero, ma lo spessore internazionale della Högberg non si discute.
Non da meno l'impatto del trio Bhakti della tenorista Zoh Amba, che nel giro di un paio di stagioni, grazie a una serie di dischi che l'hanno vista collaborare con gente del calibro di William Parker, Joey Baron, Thomas Morgan e Tyshawn Sorey, è già diventata un vero e proprio caso dall'altra parte dell'Atlantico (da questa, di parte, è stato il Centro d'Arte di Padova uno dei primi a credere nel suo talento). Calata in Austria con il pianista Micah Thomas e il batterista Chris Corsano, l'ultima discendente della stirpe degli Ayler e dei Brötzmann ha superato alla grande la prova del palco; ci sono verità e necessità nel free monolitico, feroce, di questa ventitreenne con il vizio dell'eccesso; eccesso di volume, eccesso di vibrato, eccesso di drammaticità, eccesso di presenza.
Troppo di tutto, senza fiato e senza requie per il povero ascoltatore. Ma il suono non mente: Zoh Amba sa quello che fa e sa quello che vuole. Che poi piaccia o meno, che disturbi e possa mettere a disagio, è un problema che non sembra riguardarla; che si sia infilata in un vicolo espressivo un po' troppo stretto, invece, è una questione sulla quale sarà chiamata a ragionare in futuro. Per ora soltanto applausi: per la coerenza, per la dedizione, per il coraggio. Applausi convinti anche in formato quartetto, con la stessa Högberg, il bassista austriaco Lukas Kranzelbinder e il batterista Billy Martin (sì, quello del trio Medeski Martin & Wood): un'altra sferzata di energia sotto forma di jam che ha fatto sobbalzare sui seggiolini i mille del Kongresszentrum di Saalfelden.
L'eterno presente del mainstream
Più si insiste nel dichiararlo clinicamente morto, più si punta il dito contro il presunto effetto paralizzante della tradizione, più il mainstream trova nuovi modi di parlare al presente. Ascoltare per credere l'ultima invenzione del trombettista Dave Douglas, uno che di buoni gruppi ne ha messi insieme parecchi – in tre decenni abbondanti di carriera – e che a Saalfelden si è presentato al timone di un quintetto completato da James Brandon Lewis (sax tenore), Marta Warelis (pianoforte), Nick Dunston (contrabbasso) e sua eminenza Joey Baron (il batterista jazz senza se e senza ma). Classico l'impianto, consolidate le dinamiche; al servizio di una scrittura ispirata e “problematica”, capace di valorizzare le escursioni brucianti del tenore di Brandon Lewis, voce ormai tanto autorevole quanto riconoscibile, e il pianismo discreto della polacca Warelis (talento da tenere d'occhio).
Il resto ce l'hanno messo la qualità sopraffina della sezione ritmica (dove c'è Baron, c'è gioia) e un paio di lampi di maestria dello stesso Douglas, che dopo un avvio un po' troppo da sergente di ferro ha saggiamente deciso di lasciare campo libero ai compagni di avventura (con Lewis su tutti a rubare la scena). In rodaggio, ma la band ha potenziale da vendere.
Un po' meno riuscita l'esibizione del neonato quartetto Lux, al secolo Myra Melford (pianoforte), Dayna Stephens (sax tenore, contralto e soprano), Scott Colley (contrabbasso) e Allison Miller (batteria). Classe in abbondanza, ok, con un incipit a tutto Coltrane che ha levato il fiato a una platea in giustificato delirio (e illuso chi scrive che si potesse tirare dritto così fino in fondo); poi però sono emersi i limiti di una visione troppo frammentata, poco condivisa, con le diverse anime del gruppo in stridente opposizione. Risultato: una scaletta disomogenea, discontinua anche sotto il profilo della qualità della scrittura, riscattata in parte da un finale in crescendo.
Meglio, molto meglio l'inedito incontro ravvicinato tra Melford e il già citato Hamid Drake, impegnati in un dialogo senza filo e senza rete sul palco del Nexus. Pianoforte e batteria, seguendo da vicino i passi dei giganti Cecil Taylor e Max Roach. Improvvisazione che fa stare bene, di quella che stampa sorrisi, che regala felicità; con il pianoforte trasformato in un'estensione della batteria e con il set di Drake al servizio della musicalità del duo. Nota a margine: solo poco prima del live i due hanno scoperto di avere frequentato la stessa scuola superiore a Chicago e lo stesso giro di amicizie negli anni della formazione. Un incontrarsi per la prima volta che è stato anche un ritrovarsi doppiamente emozionante. Anche questo è jazz.
Il concerto dei concerti
Niente voti, d'accordo. E niente classifiche. Ma diventa difficile non eccedere in superlativi dopo il passaggio austriaco del quartetto Father Wings di Rob Mazurek, con Fabrizio Puglisi al pianoforte, Ingebrigt Håker Flaten al contrabbasso e Chad Taylor alla batteria.
Da dove iniziare? Dalla coerenza impeccabile del filo narrativo? Dalla forza evocativa di un rito sciamanico officiato in perfetta comunione di intenti? Dalla capacità di arrivare dritti al dunque emotivo senza rinunciare alla pura astrazione, alla propensione al rischio? Merito delle doti squisitamente umane del trombettista di Chicago, maestro di relazioni, di vita che si fa musica, insuperabile nel creare spazi dell'anima dentro i quali è impossibile non sentirsi profondamente coinvolti. E così l'omaggio al padre scomparso di recente, dopo quello altrettanto toccante alla madre affidato alle tracce del meraviglioso Return the Tides: Ascension Suite and Holy Ghost, si è trasformato nell'ennesimo saggio sulla vastità dell'universo Mazurek, nell'ennesima conferma di una grandezza di spirito da profeta dell'inclusione.
Applausi, applausi e ancora applausi; anche per un Puglisi semplicemente strepitoso sia in libera uscita (suo uno dei migliori soli della quattro giorni austriaca) che nelle vesti di propulsore ritmico (fantastico nella parte finale del live l'occhiolino strizzato agli dei dello spanish tinge), per un Håker Flaten monumentale e per un Taylor gigantesco sotto tutti i punti di vista.
Ci credereste che i quattro non avevano mai suonato insieme se non per la ventina di minuti delle prove del pomeriggio? Anche questo è jazz. Anzi: questo è il jazz.
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