Quando la leggerezza è un affare serio
Il Palazzetto Bru Zane celebra i duecento anni di Hervé con un viaggio musicale tra ironia, eleganza e poesia popolare nella Parigi fra Ottocento e Novecento
03 novembre 2025 • 8 minuti di lettura
Venezia, Scuola Grande San Giovanni Evangelista & Palazzetto Bru-Zane
Parigi romantica pop
27/09/2025 - 28/10/2025C’è un filo sottile, impalpabile e tenace, che unisce la Parigi del Secondo Impero a quella della Belle Époque, e da lì arriva fino a noi: è il filo della leggerezza. Una leggerezza intelligente, fatta di ironia e misura, di stravaganze che non perdono mai il senso della forma, di risate che custodiscono un’ombra di malinconia. Con il ciclo “Parigi romantica pop” (o “Folies parisiennes”, per dirla alla francese), il Palazzetto Bru Zane ha scelto di celebrare nel 2025 il bicentenario di Hervé – il padre dimenticato dell’operetta francese – con una rassegna di musiche molto varie, spesso poco eseguite nelle sale da concerto. Ne è nato un itinerario musicale sorprendente, in cui l’audacia di un compositore “fou et génial”, secondo i suoi contemporanei, ha offerto la chiave per rileggere un secolo e oltre di cultura sonora: dalle canzoni da caffè-concerto alle trascrizioni per mandolino, dai valzer cantati ai duetti più bizzarri, fino al tango e alla fisarmonica del primo Novecento.
“Un peu d’audace, M. Perrin”, scriveva Hervé al direttore dell’Opéra di Parigi nel 1868, reclamando un posto per sé tra Verdi e Wagner. E di audacia, questo ciclo, ne ha avuta parecchia. Il Palazzetto Bru Zane ha infatti scelto, per questa rassegna veneziana, formati piuttosto inediti rispetto alla propria tradizione cameristica, sperimentando combinazioni di strumenti e voci poco consuete – duetti, recital misti, contaminazioni tra salotto e scena popolare – ma sempre con quella cura musicologica e interpretativa che ne contraddistingue da sempre l’attività. Il risultato è stato un mese di concerti animati da un entusiasmo contagioso, accolti da un pubblico numeroso e partecipe, capace di cogliere la sottile arte della frivolezza.
Dopo l’inaugurazione nella Sala Capitolare della Scuola Grande San Giovanni Evangelista, nelle corde consuete del Palazzetto Bru Zane in versione leggera, con il Quartetto Opale in un florilegio di quartetti vocali e non solo tratti da operette dei soliti noti (Hervé ovviamente, ma anche Offenbach, Messager e Delibes accanto ai meno consueti Louis Varney, Jean-Baptiste de Croze, Robert Planquette, Victor Roger e Étienne Rey), in Parigi, la chitarra e tu, il baritono Marc Mauillon e il chitarrista Pascal Sanchez hanno aperto la serie al Palazzetto con un programma che sembrava uscito da un cabaret un po’ scollacciato fra Sette e Ottocento: un’antologia di chansons badines, ironiche e piccanti, in cui la leggerezza si fa virtuosismo linguistico. L’aria del tempo – quella del salotto galante e del caffè-concerto – risuonava nelle melodie semplici e nelle parole ammiccanti dei testi anonimi o firmati da autori dimenticati: “Si Laure vous disait qu’elle sera fidèle, ô mes amis, ne vous y fiez pas !” cantava Mauillon con complicità, alternando ironia e tenerezza. Nell’antologia licenziosa assemblata da Mauillon e Sanchez c’era anche il poemetto Les six âges des femmes musicato da Giacomo Merchi (nome che torna spesso nel concerto), ironico e misogino, che descrive l’età della donna come un percorso di trasformazione erotica e decadimento fisico, attraverso una serie di metafore concrete e un po’ crudeli. E anche La Confession de Mlle Tournesol ou Les Sept Péchés capitaux, su musica di Barthélémy Trille Labarre, esempio tipico dell’umorismo erotico francese del XVIII secolo, con temi confessionali religiosi pieni di allusioni sessuali, nel quale la protagonista, Mlle Tournesol, confessa al prete i suoi “sette peccati capitali” (nell’ordine: orgoglio, avarizia, gola, collera, invidia, pigrizia, lussuria), ma ogni peccato è giustificato o trasformato in pretesto erotico con finale licenzioso del tutto prevedibile. Ma c’era ancora la riscossa delle donne nella Marseillaise des femmes di Ernest Bourget, musicata da Eugène Déjazet, canto femminista con una punta di satira, in cui la protagonista denuncia il dominio maschile e invita le donne all’azione e alla rivolta, rovesciando il ruolo tradizionale di sottomissione domestica. E naturalmente non poteva mancare l’Hervé musicista e paroliere con La professeuse de cornet à piston in puro stile vaudeville (e Mauillon che si divide fra canto e didgeridoo), e La Chanson badine, C’est dans l’nez qu’ça m’chatouille e La Muse en goguette, che presta anche il titolo francese al concerto.
La chitarra, “strumento complice di schermaglie musicali”, come recita il programma, diventava essa stessa una voce narrante con l’abilità di Pascal Sanchez a restituire un mondo diviso fra la strada e il salotto, dove il gusto francese per l’allusione garbatamente scostumata trova la sua forma più compiuta e divertente. Il concerto, prossimamente su Bru Zane Replay, nelle sue stravaganze buffonesche ha rappresentato uno dei momenti più originali del ciclo: una rievocazione raffinata e insieme vivissima della Parigi popolare, raccontata attraverso Hervé e i suoi contemporanei con uno spirito teatrale che il pubblico veneziano ha accolto con risate e applausi.
Sua maestà il re della danza è da sempre il valzer, che risuona nei saloni dell’aristocrazia ma anche nelle feste popolari. Il pianista Jean-Baptiste Doulcet, in A passo di valzer, rievoca nella sala del Palazzetto Bru Zane le danze da salotto che hanno ispirato grandi compositori romantici da Chopin a Fauré, ma anche le variazioni carnevalesche di Cécile Chaminade e le contaminazioni esotizzanti di Mel Bonis. In Oh là là!invece, il valzer parigino, travolgente e sentimentale, ma anche balli più intonati al Novecento come il fox-trot e la giava, invade le canzoni d’epoca intonate con eleganza e brio dal tenore Cyrille Dubois e dal pianista Tristan Raës, ossia il Duo Contraste, presenza frequente negli appuntamenti veneziani del Palazzetto. La voce agile di Dubois, luminosa e spiritosa con misura, si muoveva tra le sfumature di un repertorio che oscillava dal sogno (o magari il pre-sonno, come nella delicata Berceuse di André e Octave Pradels) all’ironia, dal sentimentalismo della Valse des feuilles di Émile Durand al ridacchio ammiccante di Ça c’est un coup d’veine (che è un po’ come la “botta di culo” nostrana). Il pianoforte di Raës, elegante e con gusto salottiero, sosteneva la voce con grande leggerezza e giusto colore, abbandonandosi talvolta a improvvisazioni per restituire tutto il mood di una Parigi che scopre il ritmo, il movimento, la danza come metafora della vita moderna. Il duo ha portato la chanson al confine del music-hall e della mélodie (e l’ultimo bis è proprio un omaggio a uno dei maestri del genere come Poulenc) per dire che anche la frivolezza, se interpretata con intelligenza e gusto, può diventare arte. “Pour être heureux, chers amoureux, goûtez à toutes les ivresses…” intonava Dubois, e come resistere a quell’invito alla gioia?
Ancora un cambio di registro con Opera Dream. È il 1878 quando ensemble spagnoli e italiani si esibiscono al Trocadéro con mandolini e chitarre: l’entusiasmo della stampa parigina è immediato ed anche in Francia esplode la moda del mandolino. L’editore Choudens crea una collana dedicata a questo strumento, fatta di trascrizioni e fantasie da opere liriche e operette di successo. Janvier Pietrapertosa e Pedro Aperte, fra gli altri, mettono le mani sui lavori di Offenbach, Saint-Saëns e degli altri grandi operisti e operettisti dell’epoca, senza disdegnare comunque il repertorio più leggero e popolare.
Il menù assemblato per Opera dream dall’inconsueto duo formato dal mandolinista Raffaele La Ragione e dal pianista François Dumont non era in fondo molto diverso da quello delle sorelle Lidija e Sanja Bizjaknelle loro Operette al pianoforte a quattro mani: in entrambi si trattava di un omaggio alla creatività degli arrangiamenti di lavori maggiori presentati nei teatri e alla capacità dell’epoca di reinventare le melodie più popolari in forme sempre nuove. Più originali erano, però, il taglio e gli strumenti con i quali preparare e servire pietanze insolite agli ascoltatori, trasportati nell’universo di trascrizioni liriche e da salotto nate da capolavori di Bizet, Saint-Saëns, Massenet e Cécile Chaminade, una delle (ri)scoperte recenti del Palazzetto. Tra i piatti proposti (con il tipico aroma mediterraneo conferito dal mandolino), c’erano le riscritture di Madame l’Archiduc di Offenbach e la Chanson napolitaine di Chaminade, tutti esempi di fantasiose rielaborazioni di pezzi noti o di colore. Nel menù non mancava nemmeno la grande opera “parafrasata” da illustri autori e grandi pianisti dell’epoca, come Saint-Saëns alle prese con la Thaïs di Massenet o Liszt con la Danza delle silfidi dalla Damnation de Faust di Berlioz, che Dumont faceva brillare con il suo straordinario virtuosismo pianistico. Virtuosismo e intimità dominavano in questo stravagante matrimonio fra mandolino e pianoforte, premiato ancora una volta dall’apprezzamento caloroso del folto pubblico presente in sala.
Il gran finale non poteva che rendere omaggio alla regina del bal musette. Il concerto Fisarmonica mon amour ha riportato il senso di quella festa autenticamente popolare nella sala secentesca del Palazzetto Bru Zane. Con energia trascinante e spiritosa sensibilità, l’inedita coppia Félicien Brut alla fisarmonica e Astrig Siranossian al violoncello ha offerto un saggio di come anche la musica popolare possa farsi memoria poetica. La fisarmonica, nata a Vienna, divenne rapidamente simbolo del bal musette, i celebri balli parigini di fine Ottocento nati nei quartieri popolari e nelle loro guinguettes. Tra Bizet, Saint-Saëns e Richard Galliano, passando per Charles Aznavour (con inchino alla città che ospitava il concerto con Que c’est triste Venise), Brut e Siranossian accompagnavano il pubblico in una sorta di geografia musicale dell’emozione: dall’innocenza infantile dei Jeux d’enfants di Bizet alle atmosfere sulfuree della rapinosa Danse macabre di Saint-Saëns, proposta in una virtuosistica trascrizione dallo stesso Brut, fino al tocco moderno e struggente del Tango pour Claude di Galliano, gonfio di umori argentini. Gran successo e due bis: il secondo è Les temps des cerises, iconica canzone del comunardo e socialista Jean-Baptiste Clément, ancora oggi fra le più note del repertorio francese, chiusura perfetta del ciclo con una nota di nostalgica malinconia.
Nel complesso un festival fatto di appuntamenti diversissimi per strumenti, stili e sapori, ha avuto come collante proprio l’abilità di trasformare la leggerezza in sostanza artistica. Ogni concerto, infatti, ha offerto una prospettiva diversa sullo stesso fenomeno: l’incontro tra arte e divertimento, tra il canto colto e la canzone di strada, tra la nostalgia del passato e l’ironia del presente e, se si vuole, la democratizzazione del gusto. E con, in filigrana, la figura di Hervé: il “devoto parigino” che, con il suo umorismo surreale e la sua audacia teatrale, aveva dimostrato che la risata, in musica, può essere una forma di libertà.
Anche se da una prospettiva del tutto particolare, con questo insolito ciclo il Palazzetto Bru Zane ha confermato, una volta di più, la propria vocazione a colmare le molte lacune della memoria musicale, portando alla luce repertori trascurati per offrire loro una seconda vita. Rispetto ai cicli precedenti, questa rassegna ha avuto anche il tocco della novità attraverso un rapporto più diretto e giocoso con il pubblico, un’atmosfera meno compassata e più conviviale, come in una festa condivisa. La leggerezza come forma di profondità.