Povero Sly, un'altra disillusione

Grazie alla voce, alla musicalità, all'intelligenza d'interprete, Domingo riesce a ricavare il possibile da Sly: non è colpa sua se non è molto.

Recensione
classica
Teatro dell'Opera Roma
Ermanno Wolf-Ferrari
24 Aprile 2003
Quel po' di successo che incontrò alla prima esecuzione, alla Scala nel 1928, Sly lo deve soprattutto ad Aureliano Pertile. A José Carreras deve invece il suo ritorno sui palcoscenici negli scorsi anni. Anche quest'allestimento, nato a Washington nel 1999, ha avuto il tenore catalano come primo interprete. Ora la possibilità di avere Placido Domingo come protagonista è all'origine di queste rappresentazioni romane e dunque solo a lui si deve essere grati -per così dire- se l'Opera ha aggiunto un'altra tessera a quel lavoro di riscoperta di titoli poco o affatto noti del Novecento italiano che costituisce la sola linea di politica culturale ravvisabile nelle sue recenti stagioni. Ma negli scorsi anni La Fiamma è stata una rivelazione e La Rondine è apparsa in una nuova luce, Sly invece ha confermato i forti dubbi che sempre l'hanno accompagnato. A costo di apparire banali, bisogna ribadire che la modesta ma schietta vena di Ermanno Wolf-Ferrari s'esaurisce nell'ambito della commedia, goldoniana o no. A sua parziale attenuante va detto che Sly è un soggetto impossibile, tanto che Puccini, dopo averci posato brevemente l'attenzione, l'aveva subito accantonato: anche in questo si vede il suo intuito teatrale. Wolf-Ferrari si è lasciato invece convincere da Giovacchino Forzano a trasformare in opera un suo dramma del 1920, che già era stato giustamente maltrattato da critici del calibro di Silvio D'Amico e Piero Gobetti. Partendo da un lontano spunto shakespeariano trovato nel prologo della Bisbetica domata, Forzano ricava un minestrone in cui mescola atmosfere romantiche di terza mano, velleitarie significazioni simboliche e tocchi di verismo granguignolesco. In breve: il "poeta sognatore", la "crudele beffa", la "atroce disillusione", lo "annichilimento davanti alla realtà". Parallelamente, nella partitura i cromatismi si sprecano, l'armonia percorre strade instabili e contorte, l'orchestrazione è elaborata, ma tutto è affastellato come se il compositore non sapesse che farsene di queste diavolerie moderne (neanche troppo moderne, considerando che siamo nel 1928). Oppure s'incontrano soluzioni più scontate, che funzionano in modo prevedibile ma un po' più efficace: in questi momenti però ci si può imbattere anche in un duetto d'amore che culmina in acuti lanciati a pieni polmoni, seguiti da coda trombonistica, come nel peggior verismo di qualche decennio prima. Va a finire che Wolf-Ferrari ci rimette anche la sua fama di musicista minore ma raffinato. A sessantadue anni dichiarati Domingo non esita ad affrontare nuovi personaggi, che non soltanto non assicurano un facile successo ma sono anche massacranti per la lunghezza della parte (praticamente nel terzo atto non ha nemmeno il tempo di prendere fiato) e per la pesantezza della scrittura vocale, basata su un declamato che spesso si muove negli scomodi e delicati passaggi di registro o si lancia in acuti di forza (il tenore ha provveduto ad abbassare qualche passaggio). Grazie alla voce, alla musicalità, all'intelligenza d'interprete, riesce a ricavare il possibile da Sly: non è colpa sua se non è molto. Elisabete Matos dà alla bella Dolly un aspetto piacente e una voce potente ma disordinata. Bravo Alberto Mastromarino nel personaggio piuttosto marginale del Conte Westmoreland. Tra i molti ruoli secondari s'alternano il buono (Gianfranco Montresor come John Plake) e il meno buono (Marianna Cappellani come Ostessa). Non è facile giudicare la direzione di Renato Palumbo in una partitura così sconclusionata: si ha l'impressione che non sia riuscito a trovare il bandolo della matassa ma certamente ha tenuto saldamente in pugno orchestra e coro. Poiché la regia è firmata da Marta Domingo (moglie di Placido), non bisogna faticare troppo per capire perché si è fatto traversare l'Atlantico a quest'allestimento dell'Opera di Washington, di una bruttezza e di una povertà rare sui palcoscenici italiani. L'azione è spostata dal 1600 agli anni in cui l'opera è stata composta: buona idea, se fosse il punto di partenza per cercare un aggancio di Sly con la contemporaneità, invece tutto prosegue nel modo più banale e più trito, con soluzioni da teatro amatoriale (qualche sgorbio nero proiettato sulle pareti laterali per manifestare i turbamenti di Sly, un fascio di luce rossa sul protagonista nel sanguinolento finale). Teatro pieno ma applausi non travolgenti, perché la noia ha smorzato perfino gli entusiasmi dei fans di Domingo.

Interpreti: Domingo, Matos, Mastromarino, Montresor, Bolognesi, Floris, Livermore, Giorgelé, Valenti, Fiocchi, Caforio, Cappellani, Bambi

Regia: Marta Domingo

Scene: Michael Scott

Costumi: NN

Coreografo: Eriberto Verardi

Orchestra: Orchestra Coro e Corpo di ballo del Teatro dell'Opera

Direttore: Renato Palumbo

Maestro Coro: Andrea Giorgi

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