Onegin è tornato a Palermo
Omer Meir Wellber sul podio
Omer Meir Wellber ha voluto fortemente dirigere Evgenij Onegin nel teatro di cui è direttore musicale, il Massimo di Palermo, dopo averlo diretto in altri importanti teatri. Già era stato messo in cartellone per il 2021 ma il lockdown l’ha fatto rinviare e solo ora è finalmente andato in scena. Questa premessa fa capire che quello di Wellber non è stato un approccio superficiale, come si sarebbe tentati di pensare nei primi minuti, ascoltando la sua direzione molto muscolare, un aggettivo che mai si sarebbe pensato di dover usare a proposito di queste “scene liriche” di Čajkovskij. Il breve preludio, che anticipa le atmosfere malinconiche, sospese, sognanti ed estatiche di quel che segue, è risuonato insolitamente robusto. Ad apertura di sipario – dopo il duetto e il successivo quartetto, impregnati di tristezza e rimpianto, in cui si è avvertita qualche sfasatura tra le voci - ecco il coro dei contadini, che prima intonano una canzone dolente, lamentandosi per la fatica del loro duro lavoro, e poi una canzone allegra, su richiesta della loro padrona: ma la differenza tra le due canzoni è quasi spianata da un continuo fortissimo, cosicché la prima canzone perde la sua aura malinconica e la seconda - eseguita ad un tempo velocissimo e con un ritmo molto scandito, sottolineato dai timpani tonanti - diventa quasi una marcia militare. O forse una marcia rivoluzionaria? Il coro del teatro si fa ammirare per la sua compattezza e il pubblico scoppia in applausi fragorosi, ma chi pensa di conoscere bene quest’opera, così fascinosa per le sue tinte nostalgiche ed elegantemente decadenti, rimane contraddetto e deluso.
Eppure progressivamente le intenzioni di Wellber si chiariscono e si capisce che rispondono ad una linea interpretativa ben meditata, che forse ha il difetto di essere troppo personale ed estrema ma ha una sua ragione e una sua coerenza. Sotto le melodie ciajkovskiane, che catturano irresistibilmente per il loro sentimentalismo, in cui si mescolano inestricabilmente malinconia e dolcezza, amore e dolore, passione ed eleganza, incanto e disperazione, languore e crudeltà, il tutto sotto il segno dell’inesorabile passare del tempo, che rende futile ogni cosa, sotto queste melodie – dicevamo - che incantano gli spiriti sensibili e inguaribilmente romantici, si può cogliere una realtà molto più prosaica. Ci sono due sorelle, una leggera e sventata e l’altra che non conosce la vita ed è esagerata e goffa nei sentimenti e nei comportamenti, e due giovanotti, uno innamorato come un adolescente, geloso e impulsivo, che da una cosa da nulla fa nascere una tragedia, e l’altro arrogante, antipatico e superficiale, che maschera la sua mediocrità sotto atteggiamenti snob e blasé e distrugge un piccolo mondo apparentemente felice, ma non è peggiore degli altri, anzi ha almeno capito che la vita è vuota e priva di significato, tranne cadere anch’egli alla fine nella trappola dell’amore.
In effetti il romanzo in versi di Puškin è permeato di forte ironia, che ci invita a guardare con un sano scetticismo a questa storia iperromantica. Wellber va anche oltre l’ironia e mette in piena luce la vera e poco gradevole faccia di questi proprietari terrieri, che campavano di rendita sulle spalle dei loro servi della gleba e vivevano una vita fasulla nei comportamenti come nei sentimenti. Va troppo oltre? Forse sì, anzi sicuramente sì, se pensiamo alla musica con cui Čajkovskij ha rivestito questi versi. Ma per una volta è stato non solo interessante ma anche appassionante guardare l’altra faccia, quella prosaica, di questa romantica vicenda.
Lo spettacolo, proveniente dal teatro di Magdeburgo, era firmato da Julien Chavaz (regia), Amber Vandenhoeck (scene), Sanne Oostervink (costumi) e Eloi Gianni (luci) e si adattava piuttosto bene all’interpretazione di Wellber. I personaggi indossavano modesti abiti di circa il 1960. La scena unica, con appena alcuni minimi cambiamenti nei sette quadri che compongono l’opera, consisteva di alcune rocce contorte, aspre ed aride sullo sfondo e di una panchina e due alberelli stenti verso il proscenio. La crudezza di questa storia non veniva dunque mascherata dal fascino dell’accogliente dimora di campagna dei Larin, del paesaggio russo innevato e del fastoso palazzo principesco di Pietroburgo. E non c’erano nemmeno le danze. Insomma non era uno spettacolo fatto per il piacere degli occhi, ma portava alla luce gli snodi drammatici della vicenda e il substrato psicologico dei protagonisti.
L’indiscutibile punto di forza di quest’edizione era la compagnia di canto, anzi le due compagnie, che si sono ben integrate alla lettura che di quest’opera ha dato Wellber. Nella prima compagnia il protagonista era il polacco Artur Rocinski, un cantante di classe, ideale per ruoli complessi come questo, in cui bisogna giocare sulle sfumature per rimanere sul discrimine, senza pendere troppo da una parte o dall’altra. È stato un Onegin sottilmente antipatico, la cui banalità e volgarità trapelava chiaramente ma senza eccessive sottolineature sotto gli atteggiamenti da dandy. Il secondo Onegin era il giovanissimo e promettente russo Nikolai Zemlianskikh, che ricalcava le orme di Rocinski (è un complimento) ma non riusciva ad essere altrettanto ambiguo e negativo.
La prima Tatjana era Carmen Giannattasio, che ha superato a pieni voti questo non facile debutto. Sicuramente la sua laurea in russo l’ha aiutata a penetrare in un personaggio così complesso ma il suo stile di canto rivelava inevitabilmente la sua formazione italiana. Non è necessariamente un limite ma un modo diverso d’interpretare il personaggio. Prendiamo la grande scena della lettera, quando la giovanissima protagonista (in Puškin ha sedici anni) è lacerata da sentimenti contrastanti, in una continua alternanza di passione e insicurezza, slancio e reticenza, speranza e timore, che esigerebbe un cesello vocale da canto cameristico: la Giannattasio invece punta soprattutto sui grandi climax e su un canto vibrante e appassionato. Questo modo di cantare e d’interpretare il personaggio è molto italiano ed è indubbiamente di grande presa sul pubblico - infatti raccoglie molti applausi - ma si attaglia meglio ad altri momenti, come i duetti con Onegin nel primo e nel terzo atto. Nel secondo cast la giovane moldava Natalia Tanasii non tende ai grandi vertici drammatici, ma distribuisce l’attenzione su tutta l’aria della lettera, grazie ad una maggiore penetrazione psicologica e a più sottili inflessioni vocali, mentre è meno efficace nei momenti di più aperta e sfogata drammaticità. Due interpretazioni diverse ma egualmente apprezzabili.
Con la sua voce giunta al culmine della maturità, piena, timbrata, sempre omogenea e ben controllata, l’albanese Saimir Pirgu è stato un ottimo Lenskij, un po’ più sanguigno ed appassionato e un po’ meno etereo e poetico di come lo si ascolta solitamente. A lui si alternava il bielorusso Pavel Petrov, sostanzialmente un tenore leggero dal volume un po’ scarso per una sala dalle dimensioni di quella del Massimo. Risultava quindi un po’ pallidino, ma con le sue mezze voci ha reso benissimo la sognante aria che Lenskij canta prima del duello, ripensando alla felicità passata e dando addio alla vita, presago della morte che lo aspetta.
Gli altri personaggi erano affidati ad un solo interprete in tutte le recite. Il principe Gremin era il georgiano Giorgi Manoshvili, che più che una promessa è ormai una certezza, uno dei migliori bassi della giovane generazione, per la perfetta linea di canto e la bellezza del timbro, naturalmente scuro e non artificialmente bistrato. I comprimari erano ottimi, a cominciare dalla maiuscola Filipevna di Margarita Nekrasova. Perfettamente centrate anche Olga e Larina, rispettivamente Viktoria Karkacheva e Helene Schneiderman. Da incorniciare il cameo di Monsieur Triquet realizzato da James Kryshak.
Uno spettacolo che avrebbe meritato qualcosa di più degli applausi di cortesia del pubblico palermitano.
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