Norina all'epoca dei telefoni bianchi

Tiepido successo per un Don Pasquale "ammodernato" da una regia indovinata ma poco aiutata dagli interpreti

Recensione
classica
Teatro dell'Opera Roma
Gaetano Donizetti
22 Maggio 2003
Questo Don Pasquale si svolge negli Anni Trenta del secolo scorso, all'epoca della sophisticated comedy di Hollywood e dei telefoni bianchi di Cinecittà, di cui è appassionata spettatrice Norina, che infatti si fa proiettare quelle pellicole quando s'insedia da padrona in casa di Don Pasquale. I personaggi del "dramma buffo" di Ruffini e Donizetti sono talmente veri e moderni, che reggono benisismo a questo spostamento di cent'anni in avanti. Lei è una giovane spregiudicata e concreta, che lavora come segretaria ma ha altre idee per la testa e riesce a realizzarle sposando Ernesto, un giovane sfaticato e vacuo ma potenzialmente ricco, perché è l'erede di Don Pasquale, un industrialotto con i capelli bianchi ma ancora ben in arnese, che alla tronfia soddisfazione per i suoi denari unisce la non sopita passione per le gonnelle. L'esito delle trasposizioni di questo tipo dipende non soltanto dalla bontà dell'idea iniziale ma anche e soprattutto dalla realizzazione pratica, dalla giustezza dei dettagli, dalla spirito della recitazione, da tutta una serie di minute corrispondenze tra il vecchio libretto e la nuova ambientazione: in questo il regista Italo Nunziata e lo scenografo e costumista Pasquale Grossi non sbagliano quasi nulla. Però, dopo averlo visto in teatri più piccoli, all'Opera quest'allestimento è sembrato un po' spaesato, anche perché questa volta non ha avuto la piena collaborazione di tutti gli interpreti, cominciando da Antonino Siragusa, che a recitare neanche ci prova, e da Alfonso Antoniozzi, che è un eccellente attore ma non voluto rinunciare del tutto alle smorfie artificiose e ai movimenti artritici del solito Don Pasquale semirimbambito, per arrivare ai figuranti, caricati e poco credibili. La stessa direzione di Antonio Fogliani, tendenzialmente veloce ma non per questo vivace e frizzante, contribuiva ad appiattire il risultato. È giovanissimo e il talento non gli manca, ma anche lui non è stato aiutato dai cantanti. Antoniozzi è bravissimo nei recitativi ma, quando si tratta di cantare, vengono ormai fuori crudelmente i suoi limiti: la voce è troppo chiara, il volume è minimo, i fiati corti, il colore uniforme. Siragusa ha una vocina nasale che può forse andare bene per le farse di Rossini ma non per Ernesto. Inva Mula canta bene ma si avverte che non è di casa nel genere brillante, perché le mancano lo sfavillio leggero degli acuti, la femminilità delle inflessioni insinuanti, la sorridente malizia: solo nel duetto con Malatesta si scatena, stimolata da un partner come Alberto Rinaldi, che, nonostante qualche piccola ruga nella voce, è ancora ideale per questo repertorio. Successo tiepido.

Note: Allestimento della Fondazione Teatro la Fenice di Venezia

Interpreti: Antoniozzi/Di Pasquale, Rinaldi/Terranova, Siragusa/Koroneos, Mula/Cantarero, Ricci

Regia: Italo Nunziata

Scene: Pasquale Grossi

Costumi: Pasquale Grossi

Orchestra: Orchestra Teatro dell'Opera di Roma

Direttore: Antonello Fogliani

Coro: Coro Teatro dell'Opera di Roma

Maestro Coro: Andrea Giorgi

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Bologna: il nuovo allestimento operistico dell’Orchestra Senzaspine ha debuttato al Teatro Duse

classica

Successo per Beethoven trascritto da Liszt al Lucca Classica Music Festival

classica

Non una sorta di bambino prodigio ma un direttore d’orchestra già maturo, che sa quello che vuole e come ottenerlo