Noi credevamo in Pagliacci e Cavalleria

Mario Martone firma la regia della nuova produzione del dittico verista alla Scala

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Pietro Mascagni
18 Gennaio 2011
Tonio passeggia inquieto tra i rottami di un cavalcavia autostradale, poi guarda il pubblico in sala e si dirige verso il proscenio. Si chiude il sipario, pressoché immobile rinfaccia con cattiveria al pubblico la tortura cui sono sottoposti gli artisti oggi: avere un’anima ed essere uomini in carne ed ossa. Comincia così la nuova, straordinaria produzione del dittico Pagliacci-Cavalleria Rusticana (in quest’ordine) che il Teatro alla Scala ha affidato al regista Mario Martone e alla direzione di Daniel Harding. Per entrambe, Martone sembra particolarmente interessato al rapporto individuo-società: l’artista in Pagliacci, il reietto in Cavalleria. Con Leoncavallo, la tematica Teatro-Vita è affrontata da Martone di petto: un gruppo di nomadi (di chiara derivazione est-europea) allevia le serate annoiate di una società in doppiopetto, ma il continuo andirivieni dei protagonisti e coristi fra scena e platea rende chiaro come tra il gruppo degli astanti andiamo considerati anche noi, il pubblico in sala. E saremo noi, complici della sospensione dell’incredulità, a non renderci conto che anche l’artista muore: quando Nedda cade per mano di Canio, nessuno corre a soccorrerla (tranne Silvio, un doppiopetto redento), né noi né alcuno sulla scena; cessata la sua funzione, non interessa più. Tutti si dirigono verso le quinte, noi verso il foyer. È solo uno degli innumerevoli spunti che la regia di Pagliacci offre, ma tanto basta per rendere il peso del bellissimo lavoro (anche intellettuale) svolto da Martone. Con Cavalleria, la soluzione concettuale è simile, ma diversissima la resa scenografica: il palcoscenico nudo della Scala, infatti, basta a Martone per disegnare una polis senza tempo; l’ipocrisia di una società pronta a condannare ogni peccato salvo poi confessarlo è rappresentata da un lupanare che scorre ad apertura di sipario, da cui fa capolino pure compar Alfio. Ma altrettanto ipocrita è mamma Lucia, seduta in mezzo a un folto gruppo di donne e uomini: all’entrata di Santuzza lo sguardo imbarazzato si rivolge ovunque, meno che a lei. Le sedie voltate, e i cittadini vanno a messa. Spettacolo incredibile cui ha giocato la carta vincente una direzione perfettamente in linea con tale cruda lettura: Harding, infatti, chiede all’orchestra un suono contrastato ma mai cafone, riuscendo a serrare le partiture con drammaticissima tensione anche nei momenti apparentemente più distesi (un brivido in sala all’attacco in pianissimo degli archi in “E allor perché” di Silvio). Il coro, vero centro (im)morale di tutto lo spettacolo, ha ancora una volta fatto capire quanto il suono sia nulla senza il controllo di una dizione perfetta e una distinzione delle voci da incisione in studio su multitraccia. In merito ai cantanti, il discorso si fa spinosissimo: sarebbe bene, difatti, almeno per sere come queste dimenticarsi a casa le rassicuranti nozioni di belcanto e tecnica vocale; per alcuni di loro (soprattutto José Cura, ma anche Salvatore Licitra e Oksana Dyka non scherzavano) tecnica e solfeggio sono stati dimenticati da un pezzo. Ma mai come questa volta anche le più censurabili mende hanno trovato ragione d’esistere in uno spettacolo che richiedeva prima di tutto physique du role e capacità di stare ai patti con la lettura senza concessioni di Harding: e funziona la gelosia fisicamente burina di Cura-Canio, la staticità imperturbabile di Dyka-Nedda, la sicilianità esibita di Licitra-Turiddu. Fischi a oltranza, soprattutto per Cura, Dyka e Martone, misti a urla di “strepitoso!”. Teatro nel teatro.

Interpreti: Pagliacci: Nedda, Oksana Dyka; Canio, José Cura; Tonio, Ambrogio Maestri; Beppe/Arlecchino, Celso Albelo; Silvio, Mario Cassi. Cavalleria: Santuzza, Lucia D’Intino; Lola, Giuseppina Piunti; Turiddu, Salvatore Licitra; Alfio, Claudio Sgura; Mamma Lucia, Elena Zilio.

Regia: Mario Martone

Scene: Sergio Tramonti

Costumi: Ursula Patzak

Orchestra: Orchestra del Teatro alla Scala

Direttore: Daniel Harding

Coro: Coro del Teatro alla Scala

Maestro Coro: Bruno Casoni

Luci: Pasquale Mari

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

classica

Bologna: il nuovo allestimento operistico dell’Orchestra Senzaspine ha debuttato al Teatro Duse

classica

Successo per Beethoven trascritto da Liszt al Lucca Classica Music Festival

classica

Non una sorta di bambino prodigio ma un direttore d’orchestra già maturo, che sa quello che vuole e come ottenerlo