Moderna e impervia Turandot

Prêtre torna a dirigere in un teatro d'opera, scava la partitura di Turandot, vi trova la modernità ma talvola vi smarrisce il palcosenico.

Recensione
classica
Teatro alla Scala Milano
Giacomo Puccini
14 Giugno 2001
Lo spettacolo deve continuare; con un filo di commozione di fondo, tanto più in un'opera che porta impresso nel proprio corpo il tragico e appassionante intreccio tra la fragilità della vita e l'impassibile forza dell'arte. Così, anche per ricordare la scomparsa di un amico e ammirato collega, Prêtre interrompe la propria lunga assenza dalle scene liriche. E lo fa a modo suo, decisamente lontano dalla grande lezione di Sinopoli, ma decisamente appassionato e innovativo. Lo annunciano i primi accordi, grandiosi, trattenuti in un tempo insolitamente lento per scatenarsi poi, quasi all'improvviso, in un'accelerazione repentina. Potrebbero essere assunti a motto di questa lettura fatta spesso di scelte estreme, eppure mai intaccata dall'esibizionismo o dall'effetto fine a sé stesso. Seguito con precisione e partecipazione dai complessi della Scala (in grandissima forma), Prêtre ha dato vita a un'interpretazione tesa a far risaltare la ricchissima e fitta trama di stili che la partitura di Turandot racchiude, con una particolare propensione per gli aspetti più moderni e cosmopoliti. Raramente era stato possibile ascoltare un primo atto tanto nervosamente percorso dalle tensioni, dai ritmi e dalla smagata passione della modernità. Raramente le isole di melodramma che la Turandot possiede, avevano mostrato le loro spiaggie contese con tanta violenza dalle mareggiate drammatiche del secolo breve. Come spesso accade alle letture innovative, il lavoro più difficile è quello sulla coesione con il palcoscenico, e questo, almeno alla prova generale a cui chi scrive ha potuto assistere, è stato il maggiore limite dello spettacolo. Martinucci è un Calaf dal piglio sicuro e dalla resa affidabile, ma tanto interpretativamente consolidato da risultare difficilmente trascinabile in una lettura come quella di Prêtre. Altrettanto poco duttile la Marc, dotata di note splendide per colore e volume, ma spesso approssimativa nella pronuncia e nella ricerca interpretativa. Ottime le tre maschere, per stile e teatro, così come il Timur di Andrea Papi; commovente la Liù di Cristina Gallardo Domas, scenicamente credibile e dalla voce ricca e precisa. Ognuno di loro teso a difendere il proprio impervio spazio vocale, ma non altrettanto deciso a seguire il direttore nei suoi bruschi sbalzi stilistici, creando talvolta anche delle situazioni di percepibile scarto tra orchestra e palcoscenico. Keita Asari, che firma sia la regia che le scene e i costumi, ambienta l'opera in una Cina ricca di riferimenti all'altrove: dalla misteriosa maschera che ogni abitante di Pechino porta appesa all'abito, al grande pulpito fitto di caratteri orientali dal quale l'Imperatore arringa i suoi sudditi. Molto belle le tre grandi statue sotto le quali dialogano i dignitari nel second'atto; meno bella la macchia di alti bambù nella quale è ambientato il terzo, e decisamente inutili (ma molto applauditi) i tre agilissimi guerrieri che piroettavano e scalciavano in aria tra il popolo di Pechino, come in uno stralunato film di Bruce Lee.

Note: nuovo all

Interpreti: Martinucci/Lotric, Marc/Ginzer, Gallardo Domas/Amsellem, Papi, Cazzaniga, Lepore, Bertocchi, Bolognesi

Regia: Keita Asari

Scene: Keita Asari

Costumi: Keita Asari

Orchestra: Orchestra del Teatro alla Scala

Direttore: Georges Prêtre

Coro: Coro del Teatro alla Scala

Maestro Coro: Roberto Gabbiani

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