In miniera

diario del 15 luglio

Recensione
jazz
Montevecchio, Su Zurfuru, Monteponi, Ingurtosu, Malfidano, Gennamari, Argentiera, Seddas Modizzis, Arenas e Tiny, Funtana Raminosa, Bacu Abis, Corongiu, Orbai, Monte Narba, Nerbida, Perd’e Pibera, Narcao, Serbarìu, Su Suergiu… Sono solo alcuni dei luoghi minerari della Sardegna. Il 3 maggio del 1871 venne discussa in Parlamento una Relazione alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta sulle condizioni dell’Industria mineraria in Sardegna, stilata da Quintino Sella. Nelle tavole che corredavano la Relazione vennero indicate ben 467 miniere attive. Uomini e donne dell’isola vi hanno sputato l’anima fino a qualche decennio fa modificando il concetto di organizzazione chiusa ed arretrata del regime feudale e portandolo per mano, con il proprio sudore e la propria lotta, verso una società finalmente aperta e civile. Seppure con un sistema di tipo capitalistico che ha sfruttato la classe operaia che solo nel dopoguerra è riuscita a organizzarsi per lottare e per migliorare le proprie condizioni di vita che, fino ad allora, erano disumane. Il libro “Donne e bambine nella miniera di Montevecchio” di Iride Peis Concas edito da Pezzini racconta bene anche la condizione della donna e delle bambine in miniera. Il loro compito era quello di cernitrici del minerale. Le donne e le bambine spaccavano, sceglievano, insaccavano il minerale estratto lavorando nei piazzali davanti ai pozzi e alle gallerie. Lavoro massacrante questo, senza alcuna garanzia sociale e subordinato in genere al mondo maschile. Il 4 maggio del 1871 a Montevecchio morirono 11 tra donne e bambine. Morte per il crollo del tetto della baracca in cui tentavano di riposare. Ma i sardi si fanno mettere i piedi addosso fino al punto in cui partono a testa bassa. Perché già alla fine dell’800 ci furono i primi scioperi spontanei fino a quando, a Montevecchio e Buggerru, non furono organizzati scioperi più massicci ai primi del Novecento e uno di ben 47 giorni nel 1949 che coinvolse anche la società civile. Sciopero indetto per contestare le impossibili condizioni di lavoro nelle miniere. Sardi sì, in grado di lavorare come muli ma fino a un certo punto. Sardi con braccia rubate alle campagne quando la terra sarda era arida e senz’acqua, lontana dal mondo, granaio di Roma e luogo di punizioni esemplari dove mandare i nemici del regime nell’epoca fascista e i nemici del sistema e delle Istituzioni nell’epoca della Repubblica.

Ieri sera siamo arrivati davanti al pubblico su una Balilla nera guidata da Adriano Pisi che è uno dei nostri luciai. E’ stata una idea divertente e siamo stati accolti da un lungo applauso ma forse, a pensarci bene, non lo era più di tanto e il concerto si è svolto con il pensiero rivolto a quel luogo e a quella storia ingombrante e lunga almeno 150 anni. In duo con il pianista di Belgrado Bojan Z la scena è un’ambulanza bianca del periodo fascista (esattamente quella usata allora nella miniera) illuminata che sembrava finta da Gianni Melis. Nel Pozzo Gal a Ingurtosu sembra di essere in un altro tempo. Perché già scendendo per la via principale di Arbus hai l’impressione di essere in un luogo diverso dove salite e discese sono l’espressione morfologica di ciò che quei luoghi sono stati. Il sindaco Francesco Atzori mi regala un catalogo fotografico che racconta ciò che era. Parla di suo padre minatore e ha ancora vivo nella sua memoria il suono delle campane che annunciavano la triste morte di uno dei tanti padri di famiglia. La gente del paese si stringeva nel silenzio e tutti si domandavano a chi era toccata stavolta la malasorte e se non fosse toccata proprio a loro. “Toccare”, in sardo e in spagnolo, significa suonare. Suonare a morto le campane della chiesa mentre noi ieri sera a Ingurtosu abbiamo toccato tasti e pistoni suonando e dialogando con la magia di quel posto unico. Tra un’ambulanza bianca, le rovine ormai ristrutturate di quello spazio e gli oggetti arrugginiti della miniera. Presenze quasi minerali che si portano appresso un sapore a volte sinistro e a volte poetico. Il concerto a Ingurtosu sembra essere quello delle grandi occasioni nonostante il luogo sia a una manciata di chilometri dal Tempio di Antas dove siamo stati con Douglas, Rava e Avishai Coen un paio di giorni fa.
Del resto “!50” è questo. Sono 50 concerti diversi con 50 gruppi e in 50 luoghi e vale la pena di seguirne un po’ e molti degli spettatori alla fine del concerto mi fermano e mi dicono che sono al settimo e decimo concerto e ormai ne conosco il viso e ci si ferma a chiacchierare e a scambiarci pareri sui concerti e parole. Ci sono quelli della Protezione Civile e i Carabinieri e tutti si danno un gran da fare. Al Pozzo Gal ci si arriva attraverso una strada stretta e piena di curve che passa sotto l’arco del Palazzo dirigenziale della miniera immortalato dall’amico regista Gianfranco Cabiddu nel film “Il figlio di Bakunin”. E’ dunque necessario fare tutto bene per evitare ingorghi ed è per questo che ci portano a cena presto per poter poi riscendere senza rischiare di rimanere imbottigliati nel traffico. Tutto si svolge bene e la gente è tranquilla e ordinata. Sono meno rispetto al concerto di Antas ma si vede anche che sono lì per ascoltare e non per curiosità. I brani sono in buona parte di Bojan che i francesi chiamano “Z” per facilità ma che in realtà porta un cognome impronunciabile perché è serbo di Belgrado anche se ormai francese da vent’anni. Bojan Zulfikarpasic si chiama dalle parti loro. Figuriamoci i francesi che mettono accenti dappertutto cosa combinerebbero con quello strano cognome. Già sbagliano il mio che è di cinque lettere e senza troppe consonanti…
Dedico alla miniera il mio “Fellini” e poi Bojan attacca “Full Half Moon” fino a quando la luna non appare a Piscinas. I sapori dei balcani si confondono con quelli sardi e la musica che sgorga è una. Perché quando si è sottoterra la visione del mondo assume un’altra prospettiva e anche i suoni non hanno più i confini delle carte geografiche.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

jazz

La rassegna You Must Believe In Spring con Steve Lehman Sélébéyone, Mariasole De Pascali Fera e Tell Kujira

jazz

Si chiude l'ottima edizione 2024 del Torino Jazz Festival

jazz

Usato sicuro e un tocco british per il quarantunesimo Cully Jazz