Michieletto e il metronomo

“L’opera da tre soldi” al Piccolo Teatro sessant’anni dopo Strehler

Recensione
classica
Qualche vecchio spettatore affezionato da decenni al “Piccolo” durante la pausa ricorda che Strehler faceva provare gli attori con il metronomo. Tic, tac, tic, tac e una battuta via l’altra. In fondo, il teatro è una questione di ritmo. E tenere il ritmo è anche più fondamentale che nell’opera, dove comunque c’è una partitura e un direttore che il ritmo lo deve tenere da contratto. Inevitabilmente si ripensa a Strehler e al suo grande Piccolo quando si mette piede nel teatro per rivedere uno dei suoi titoli più iconici fra i pure suoi tantissimi che hanno fatto la storia del teatro del dopoguerra. Nonostante i sessant’anni trascorsi dalla prima edizione del 1956 e a oltre quaranta dalla seconda del 1973, l’impresa di Damiano Michieletto è di quelle che fanno tremare i polsi. Ma la cospicua esperienza di teatro musicale alle spalle e i successi a livello internazionale lo rendono un candidato ideale per la messa in scena di un testo che, se può difficilmete essere definito un’opera malgrado il titolo, nelle canzoni da cabaret berlinese e nei ritmi jazz congegnati dall'estro di Kurt Weill trova il suo marchio identitario più forte. Il risultato? Qualche luce, parecchie ombre.

Il confronto con Strehler è comunque impari. Eppure alcune delle riflessioni del regista triestino sulla messa in scena del testo di Brecht non sembrano sentire il peso del tempo: «Sostanzialmente i metodi sono due: o si parte dal piacevole come base plastica, visiva, auditiva e si immette l’acido continuamente, nel preparato a volute, schizzi e altro. O si parte dallo spiacevole, dall’inquietante e lo si veicola con il piacevole, l’accattivante, quasi il mistificatorio.” Il veleno non mancherebbe nemmeno oggi nella scrittura di Brecht, per molti versi datata ma ancora ricca di suggestioni “ambientali»: il lavoro è del 1928 e riflette benissimo quel clima di miseria e degrado che culminerà nella grande crisi del 1929, che non è poi così lontana da quella delle nostre tormentate vicende contemporanee. E infatti nell’ Opera da tre soldi si parla moltissimo di ladri, di racket della miseria, di banche, di istituzioni corrotte. Ma nonostante la fama di enfant terrible che lo accompagna fin dagli esordi, Michieletto è sempre piacevole e non rinuncia a esserlo anche in questo Brecht.

L’inseparabile scenografo Paolo Fantin rinuncia in questo caso a ogni virtuosismo e costruisce uno spazio fisso con cambi a vista degli elementi di scena. Lo spazio è quello disegnato da una gabbia, nella quale vengono mossi lo scranno di un giudice e la tribuna della giuria. Estetica contemporanea dunque con qualche spruzzata pop (il sipario luccicante da varietà, che rimanda al recente Carriera del libertino così come lo psichedelico mondo delle prostitute, solo momento di colore di uno spettacolo altrimenti piuttosto cupo). L’idea è di presentare i fatti come testimonianze nel processo a Mackie Messer, il più grande e famoso criminale di Londra, che apre lo spettacolo già con il cappio al collo e predica su chi siano i veri criminali. Le tappe successive ricompongono il mosaico come in un flashback che termina con Mackie Messer di nuovo sul capestro dal quale sarà salvato non già dal messo della regina ma dal fiume di denaro che arriva appena in tempo nelle tasche del giudice corrotto.

Il movimento non manca di certo ma l’effetto è piuttosto quello di un levigato saggio di tecnica teatrale (Michieletto, si sa, è molto bravo in quello) che illustra più che far parlare il testo allo spettatore contemporaneo. Né aiuta la nuova traduzione spesso gratuitamente sboccata di Roberto Menin e dello stesso Michieletto per i testi delle canzoni. Malgrado la presenza in buca dei sedici bravi strumentisti della “Verdi” e di un direttore capace come Giuseppe Grazioli, la musica non si impone in questo spettacolo e le canzoni mancano di mordente, complice un cast di attori cantanti e non di cantanti attori come volle Strehler (e che cantanti!). Morde pochissimo Marco Foschi con il suo Mackie Messer troppo sottotono. Appena meglio fa Peppe Servillo con il suo livido Peachum. Fra le donne, più che la gracile Polly di Maria Roveran (che comunque strappa l’applauso nel suo malinconico addio a Mackie in fuga), lascia il segno solo la stralunata Jenny di Rossy De Palma dall’inconfondibile profilo picassiano che gli anni hanno un po’ addolcito quanto arricchito come interprete. Buono il gioco d’attori ma manca il colpo d’ala a questa Opera da tre soldi.

«Lo spettacolo ha un ritmo sapientissimo: le parti recitate si alternano senza un attimo di sosta con le ironiche musiche di Kurt Weill, giustamente restituite al loro valore, cosi che la fusione tra la recitazione e il canto è delle più felici» commentava il critico della Stampa in occasione di un passaggio nel 1959 al Teatro Carignano dello spettacolo del Piccolo Teatro. Il ritmo, dunque. È soprattutto quel ritmo che manca nell’edizione odierna. E se anche Michieletto usasse il metronomo?

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