Maschere antinaturaliste

Teatro nel teatro, metateatro, teatro di maschere come pretesto di una decisa virata antinaturalista in ancor piena anzi pienissima stagione "verista", in un profluvio di citazioni, autocitazioni e omaggi che arieggia già al Neoclassico e a tante altre cose importanti del Novecento... di fronte a "Le maschere" di Pietro Mascagni, di cui il Cel (Comitato Estate Livornese) - Teatro di Livorno per il cartellone di Città Lirica (la stagione d'opera Lucca-Pisa-Livorno) ha realizzato alla Gran Guardia una pregevole ed azzeccata 'edizione del centenario', è difficile esimersi dal tirare in ballo una gloriosa lista di titoli, dall'"Arianna a Nasso" a "Pulcinella" all'"Amore delle tre melarance" (con segno diverso alla stessa "Turandot"), e, quanto al teatro parlato, con tutt'altra intenzione e temperie, persino al denudamento pirandelliano della maschera. L'origine dell'idea sarà magari altra e più modesta, un goldonismo bonario e manierato di marca ottocentesca, le pubblicazioni degli antichi scenari della Commedia dell'Arte nell'ambito della cultura positivista... ma è un fatto che ancora una volta, com'era successo poco prima con "Iris", Mascagni, alla ricerca di qualcosa di diverso dal modulo verista di "Cavalleria" che gli aveva dato il successo, volge all'intorno con prontezza le antenne del suo genio vivace e scriteriato. Confeziona così un'opera in cui i Personaggi non sono Sei ma nove, Pantalone, Rosaura, Florindo, Graziano, Colombina, Arlecchino, Capitan Spavento, Brighella e Tartaglia, più l'impresario Giocadio della cornice metateatrale iniziale. Anche se certe soluzioni drammaturgiche e musicali sono affini (dalla presenza di ruoli parlati, qui l'impresario della Parabasi iniziale, alla drastica riduzione settecentista dell'orchestra), nessuno vorrà certo sostenere che i risultati siano paragonabili ai titoli che si sono fatti sopra; e tuttavia, a riascoltarla, l'opera, dominata da poche ma azzeccate invenzioni musicali, ha una sua stramba seduzione di cui forse è persino difficile dar conto. Il tipico melos naturalista è contenuto in una fraseologia breve e quadrata (diciamo pure neoclassica o almeno ciò che Mascagni sembra intendere per tale) adattabile agli amabili strambottini di cui è costituito il libretto dell'espertissimo Luigi Illica (lo stesso che con "Iris" aveva precocemente intuito e suggerito a Mascagni un teatro, più che di esotismo, di idee e simboli), in una petizione di leggerezza che sembra quanto di più distante dal temperamento di Mascagni; ma il tutto si sostanzia di un affetto vero per il mondo delle maschere, per le vecchissime trame padri burberi-figli innamorati che risalgono nientemeno che alla Commedia Nuova ateniese, per il Settecento italiano di Paisiello e Cimarosa (intuibili in palinsensto nel brio dei violini, nel trattamento comico degli strumentini). Un affetto, un sogno tinto dei colori della commedia ma che spesso diventa curiosamente malinconico, fino al coro finale in lode delle maschere italiane, inappropriatamente ma anche seducentemente struggente. È stata, quella di Livorno, una buona edizione. La concertazione non proprio rifinita ma scorrevole e funzionale di Bruno Aprea si appoggiava su un'orchestra e coro di più che accettabile efficienza e su un copioso cast omogeneo e molto ben preparato, con il veterano Graziano Polidori come Pantalone e in cui spiccavano per simpatia e musicalità il Tartaglia di Giorgio Caoduro, per momenti di canto aggraziato il Florindo di Maurizio Comencini e la Rosaura di Raffaella Angeletti, per fisicità l'Arlecchino di Alessandro Cosentino. Ma ciò che contava era l'effetto Lindsay Kemp: l'artista inglese firmava scene, costumi e regia, una regia di lazzi stilizzatissimi contrapposti a immobilità da belle statuine e generalmente ritmata sulla musica (cosa che dopo decenni di ponnellismo potrebbe anche dare uggia ma che per queste "Maschere" ci è sembrato che andasse benissimo), una scena che è un omaggio all'estetica teatrale illusionista dei praticabili e dei fondali dipinti, ma straordinariamente nobilitata dalle splendide pitture sceniche di Mark Baldwin (un corteggio di maschere-animali un po' alla Chagall, una Venezia in verde e rosa volutamente di maniera, una scena pulcinellesca che invece arieggia a Goya e Daumier). Effetto Lindsay Kemp, ossia ci si ritrovava ad applaudire come bambini cose come il tableau fermÈ, con i Pulcinella rossi ballerini in primo piano in un'orgia di colori netti illuminati a giorno, alla fine della Furlana del secondo atto, e queste "Maschere" si rivelavano capaci di sollevare nella roccaforte mascagnana della Gran Guardia un'ondata di piacere teatrale su cui forse, all'inizio della serata, non tutti avrebbero scommesso.

Recensione
classica
C.E.L. Teatro di Livorno Livorno
Pietro Mascagni
17 Novembre 2001
Teatro nel teatro, metateatro, teatro di maschere come pretesto di una decisa virata antinaturalista in ancor piena anzi pienissima stagione "verista", in un profluvio di citazioni, autocitazioni e omaggi che arieggia già al Neoclassico e a tante altre cose importanti del Novecento... di fronte a "Le maschere" di Pietro Mascagni, di cui il Cel (Comitato Estate Livornese) - Teatro di Livorno per il cartellone di Città Lirica (la stagione d'opera Lucca-Pisa-Livorno) ha realizzato alla Gran Guardia una pregevole ed azzeccata 'edizione del centenario', è difficile esimersi dal tirare in ballo una gloriosa lista di titoli, dall'"Arianna a Nasso" a "Pulcinella" all'"Amore delle tre melarance" (con segno diverso alla stessa "Turandot"), e, quanto al teatro parlato, con tutt'altra intenzione e temperie, persino al denudamento pirandelliano della maschera. L'origine dell'idea sarà magari altra e più modesta, un goldonismo bonario e manierato di marca ottocentesca, le pubblicazioni degli antichi scenari della Commedia dell'Arte nell'ambito della cultura positivista... ma è un fatto che ancora una volta, com'era successo poco prima con "Iris", Mascagni, alla ricerca di qualcosa di diverso dal modulo verista di "Cavalleria" che gli aveva dato il successo, volge all'intorno con prontezza le antenne del suo genio vivace e scriteriato. Confeziona così un'opera in cui i Personaggi non sono Sei ma nove, Pantalone, Rosaura, Florindo, Graziano, Colombina, Arlecchino, Capitan Spavento, Brighella e Tartaglia, più l'impresario Giocadio della cornice metateatrale iniziale. Anche se certe soluzioni drammaturgiche e musicali sono affini (dalla presenza di ruoli parlati, qui l'impresario della Parabasi iniziale, alla drastica riduzione settecentista dell'orchestra), nessuno vorrà certo sostenere che i risultati siano paragonabili ai titoli che si sono fatti sopra; e tuttavia, a riascoltarla, l'opera, dominata da poche ma azzeccate invenzioni musicali, ha una sua stramba seduzione di cui forse è persino difficile dar conto. Il tipico melos naturalista è contenuto in una fraseologia breve e quadrata (diciamo pure neoclassica o almeno ciò che Mascagni sembra intendere per tale) adattabile agli amabili strambottini di cui è costituito il libretto dell'espertissimo Luigi Illica (lo stesso che con "Iris" aveva precocemente intuito e suggerito a Mascagni un teatro, più che di esotismo, di idee e simboli), in una petizione di leggerezza che sembra quanto di più distante dal temperamento di Mascagni; ma il tutto si sostanzia di un affetto vero per il mondo delle maschere, per le vecchissime trame padri burberi-figli innamorati che risalgono nientemeno che alla Commedia Nuova ateniese, per il Settecento italiano di Paisiello e Cimarosa (intuibili in palinsensto nel brio dei violini, nel trattamento comico degli strumentini). Un affetto, un sogno tinto dei colori della commedia ma che spesso diventa curiosamente malinconico, fino al coro finale in lode delle maschere italiane, inappropriatamente ma anche seducentemente struggente. È stata, quella di Livorno, una buona edizione. La concertazione non proprio rifinita ma scorrevole e funzionale di Bruno Aprea si appoggiava su un'orchestra e coro di più che accettabile efficienza e su un copioso cast omogeneo e molto ben preparato, con il veterano Graziano Polidori come Pantalone e in cui spiccavano per simpatia e musicalità il Tartaglia di Giorgio Caoduro, per momenti di canto aggraziato il Florindo di Maurizio Comencini e la Rosaura di Raffaella Angeletti, per fisicità l'Arlecchino di Alessandro Cosentino. Ma ciò che contava era l'effetto Lindsay Kemp: l'artista inglese firmava scene, costumi e regia, una regia di lazzi stilizzatissimi contrapposti a immobilità da belle statuine e generalmente ritmata sulla musica (cosa che dopo decenni di ponnellismo potrebbe anche dare uggia ma che per queste "Maschere" ci è sembrato che andasse benissimo), una scena che è un omaggio all'estetica teatrale illusionista dei praticabili e dei fondali dipinti, ma straordinariamente nobilitata dalle splendide pitture sceniche di Mark Baldwin (un corteggio di maschere-animali un po' alla Chagall, una Venezia in verde e rosa volutamente di maniera, una scena pulcinellesca che invece arieggia a Goya e Daumier). Effetto Lindsay Kemp, ossia ci si ritrovava ad applaudire come bambini cose come il tableau fermÈ, con i Pulcinella rossi ballerini in primo piano in un'orgia di colori netti illuminati a giorno, alla fine della Furlana del secondo atto, e queste "Maschere" si rivelavano capaci di sollevare nella roccaforte mascagnana della Gran Guardia un'ondata di piacere teatrale su cui forse, all'inizio della serata, non tutti avrebbero scommesso.

Note: nuovo all.

Interpreti: Barresi, Polidori / Serraiocco, Angeletti / Cifrone, Comencini / Formaggia, Monaco / Giorgelé, Contucci / Bungaard, Bosi / De Angelis, Morini / Paliaga, Cosentino / Bedoni, Caoduro / Battiato

Regia: Lindsay Kemp

Scene: Lindsay Kemp

Costumi: Lindsay Kemp

Coreografo: Daviso

Orchestra: Orchestra Città Lirica

Direttore: Aprea

Coro: Coro Città Lirica

Maestro Coro: Bargagna

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