L’Italiana in Algeri a Roma, con qualche contrattempo
Gli imprevisti sono stati prontamente risolti e lo spettacolo è giunto tranquillamente alla fine, con esito buono ma non entusiasmante

È stata piuttosto travagliata la navigazione di quest’Italiana in Algeri, che alla fine è comunque approdata sana e salva a Roma, nonostante le tempeste che ha dovuto attraversare. Prima si è dovuta sostituire la protagonista per il forfait della cantante annunciata al momento della presentazione della stagione. Poi nel corso della prima recita si è dovuto sostituire il coprotagonista Mustafà in seguito a un incidente più unico che raro. Paolo Bordogna, che fino ad allora aveva cantato con la sua solita verve vocale e scenica ma aveva anche manifestato qualche difficoltà non particolarmente grave, dovuta forse ad una parte troppo bassa per un baritono e anche a qualche problema di salute. Verso la fine del primo atto si è interrotto durante la sua aria “Già d’insolito ardor” per qualcosa che sembrava un colpo di tosse; si è scusato col pubblico, che lo ha incoraggiato con un applauso, e ha ripreso ma dopo poche note si è fermato definitivamente, ha salutato ed ha lasciato il palcoscenico. Costernato il direttore ha detto: “Vado a vedere quel che sta succedendo” ed è sceso dal podio. Dopo un lungo intervallo è stato annunciato che lo spettacolo sarebbe continuato con Adolfo Corrado, già previsto come Mustafà nel secondo cast. Naturalmente il pubblico lo ha accolto benevolmente come il salvatore della serata ma Corrado non avrebbe avuto bisogno di tale benevolenza, perché è stato un ottimo Mustafà con una voce estesa, ben timbrata e ben governata e anche con una buona vis comica. È giovane ma ha già un bel curriculum: per il sottoscritto è stata una scoperta da seguire con attenzione.

Passiamo all’altra sostituzione, che non è stata così precipitosa, perché Marina Kataeva ha dato forfait con ampio anticipo, cosicché c’è stato tutto il tempo per scegliere per la parte di Isabella una sostituta di rango qual è Chiara Amarù. La voce non è amplissima ma è usata con ottima tecnica e “corre” bene anche in un teatro come il Costanzi, che è multiplo del San Benedetto veneziano, per il quale il ventiduenne Rossini scrisse quest’opera. Il timbro è luminoso (è un mezzosoprano, mentre Isabella sarebbe un contralto, ma questa è una categoria vocale oggi pressoché estinta), le agilità impeccabili, l’interprete molto vivace sia nei momenti francamente comici che in quelli che si atteggiano a una certa serietà, come “Pensa alla patria”.
Lindoro era Dave Monaco: nel suo caso mi spiace dover dissentire dagli applausi a tratti entusiastici del pubblico. Gli acuti erano piuttosto sgraziati ed aspri e purtroppo nelle sue cavatine “Languir per una bella” e “Oh come il cor di giubilo” gli acuti sono molti e scomodi. Invece nei pezzi d’insieme, dove c’è meno spazio per questi sfoggi virtuosistici, tutto filava perfettamente e lasciava intendere che sarebbe un cantante ideale in parti meno impervie di questa. Il georgiano Misha Kiria era il maiuscolo interprete del pavido e ridicolo Taddeo: maiuscolo per stazza fisica (in altezza sopravanza di parecchio gli altri cantanti) e per l’esuberanza della sua interpretazione, sia come cantante che come attore, irresistibile ma senza mai eccedere. Gli altri personaggi erano affidati a tre giovani del Progetto “Fabbrica” del Teatro dell’Opera, ovvero Jessica Ricci (Elvira), Maria Elena Pepi (Zulma) e Alejo Alvarez Castillo (Haly): tutti e tre superlativi (superlativissima la Ricci, e chiedo scusa alla grammatica) quindi questo progetto evidentemente funziona.
Il romano Sesto Quatrini (un quarantenne che ha un bel curriculum in Italia e all’estero) debuttava sul podio del teatro della sua città. Dopo una Sinfonia piuttosto deludente, le cose si sono raddrizzate. Tuttavia mi è sembrata un’interpretazione piuttosto indifferente a quel che accadeva in scena, che non individuava e valorizzava le sempre diversificate situazioni che si succedono vorticosamente nell’Italiana. Però questa direzione un po’ distaccata funzionava piuttosto bene nei momenti di “follia organizzata e completa” come il finale primo, quando tutti i personaggi sembrano le rotelle di un meccanismo impazzito: “nella testa ho un campanello che suonando fa dindin”, “come scoppio di cannone la mia testa fa bumbum”, “sono come una cornacchia che spennata fa cra cra”, ecc.

La regia, le scene e i costumi erano quelle create più di vent’anni fa per il Teatro Massimo di Palermo da Maurizio Scaparro, Emanuele Luzzati e Santuzza Calì e già viste a Roma nel 2003. È uno spettacolo di gran classe, semplice e lineare: la scena unica si modifica in alcuni dettagli per creare le diverse ambientazioni, e la regia coglie le varie situazioni, talvolta quasi sentimentali ma più spesso assurde e comiche, senza scadere nel buffonesco ma fermandosi sempre un attimo prima. Ora la regia di Scaparro è stata ripresa da Orlando Forioso, che ha lasciato una certa libertà ai protagonisti, la cui recitazione era diversa da quel poco che possiamo ricordare di quel che abbiamo visto nel 2003 e ricorreva spesso ai soliti gesti generici.
Stranamente, dato che si trattava di un’opera di grande richiamo, erano molti i posti vuoti. L’accoglienza del pubblico, buona ma non entusiastica, rispecchiava pregi e limiti dello spettacolo.
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