L'ironia all'avanguardia

Marc Ribot e Ceramic Dog ad alto volume al FolkClub di Torino

Recensione
jazz
Folkclub Torino
15 Febbraio 2013
Marc Ribot presenta il primo pezzo – dal nuovo album, in uscita, dei suoi Ceramic Dog (Ches Smith alla batteria, Shahzad Ismaily al basso). Seguono – andando più o meno a memoria - una lunga progressione stop-and-go angolosa e distorta, un’improvvisa apertura blues, tempi irregolari, una sequenza elettrica ed ipnotica alla Godspeed You! Black Emperor con Ismaily alla chitarra... e molto molto altro, da perdersi. Avevamo visto Ribot al FolkClub nel [a href='http://www.giornaledellamusica.it/rol/?id=2705']2009[/a]: nell’occasione (memorabile), il suo solo era sembrato il manifesto del suo approccio alla musica: citazionista, sghembo, parodico, free, con sua ironia di fondo e una capacità – rara - di non prendersi troppo sul serio. Ceramic Dog conferma la poetica del leader, virando i toni verso quell’area di musiche spesso catalogate come post-punk, e che mantengono attraverso i volumi alti, l’elettrificazione e il gesto “provocatorio” pari legami tanto con il coté rock quanto con quello dell’avanguardia jazz (per farsi un’idea delle coordinate basta dare un’occhiata alle collaborazioni tanto di Ribot quanto dei suoi compagni di viaggio: Zorn, Patton, Secret Chiefs 3, Fred Frith….). La forza di Ceramic Dog – il suo aspetto più interessante e fresco – è però il superamento di questo genere “di confine” con continue incursioni di qui e di là della linea; è il suo ripensamento, la capacità di rileggerlo in modo parodico, come “visto dall’esterno”. Anche senza aver paura di fare le cose facili: qui e là affiorano giri armonici elementari, improvvisazioni su due accordi, uno swing – come diffuso da un vecchio altoparlante, qualche cover, frammenti di Hendrix (“The Wind Cries Mary”) e perfino uno standard come “Take Five”. Viene in mente – un nome su tutti – Eugene Chadbourne, fra gli altri frequentatori di questi territori, ai confini della musica di confine. Un’occasione speciale nel piccolo basement torinese. Si finisce con le orecchie che fischiano, e con l’impianto che emette preoccupanti gemiti – in attesa delle lamentele dei vicini.

Interpreti: Marc Ribot: chitarra e voce; Ches Smith: batteria ed effetti; Shahzad Ismaily: basso, chitarra, synth.

Se hai letto questa recensione, ti potrebbero interessare anche

jazz

Stefano Battaglia e Mirco Mariottini chiudono ParmaJazz Frontiere

jazz

La sessantunesima edizione della rassegna berlinese tra “passato, presente, futuro”

jazz

Pat Metheny è sempre lui: lo abbiamo ascoltato dal vivo a Madrid