L'improvvisazione come dialogo tra generazioni

Jazzfest Berlin 2022, quarantatré concerti in quattro intense giornate di musica, indagando le varie anime del jazz di ricerca

Isaiah Collier (foto Anna Niedermeier - Berliner Festspiele)
Isaiah Collier (foto Anna Niedermeier - Berliner Festspiele)
Recensione
jazz
Berlino
Jazzfest Berlin
03 Novembre 2022 - 06 Novembre 2022

Berlino, Jazzfest, 3-6 novembre 2022: quattro lunghe giornate, 43 concerti in varie location tra cui alternarsi nelle notti berlinesi, molti sold-out e diverse punte di diamante, ad animare il pubblico numeroso; ma soprattutto, uno spaccato delle varie anime del jazz di ricerca oggi, seguendo i percorsi ideali proposti dalla direzione artistica di Nadine Deventer.

Tra questi, l’attenzione privilegiata per la scena di Chicago, sempre e ancora grande fucina di talenti e di creatività comunitaria: se ne è avuta prova a cominciare dalla serata di apertura con il quartetto d’archi di Tomeka Reid che portava qui in prima europea il suo progetto sugli arrangiamenti di Julius Hemphill, ma ancor più con Hamid Drake e “Turiya”, ad omaggiare la figura di Alice Coltrane in un intenso concerto dall’impianto di ampio respiro (e penalizzato, per questo, dai tempi ridotti della Festspielhaus, con tre concerti consecutivi in programma in prima serata), all’insegna dello spiritual jazz e dell’interazione collettiva, con i notevoli contributi, tra gli altri, di Naïssam Jalal (flauto) e di Sheila Maurice-Grey (tromba), per la prima volta nell’organico di Turiya.

Atmosfere ipnotiche che si sono protratte anche nell’incontro musicale tra Drake, Brötzmann e Majid Bekkas (guimbri, voce), in un riuscito amalgama tra sonorità gnawa e free in cui il sassofonista tedesco non ha nascosto una sua apprezzata vena melodica. E poi, ritornando a Chicago e passando per Matana Roberts, arrivare al giovane ma già affermato sassofonista Isaiah Collier, che prima in duo e poi con il quartetto “The Chosen Few” ha trascinato il pubblico in un universo decisamente coltrainiano: sound possente e ostinato, virtuosismo, ma anche lirismo e venature spirituali, per un artista di cui sarà interessante seguire l’evoluzione, se ancora nel solco di un nume tutelare oggi centrale o allontandosi da quest’ultimo.

Ben LaMar Gayhaus (foto Roland Owsnitzki - Berliner Festspiele)
Ben LaMar Gayhaus (foto Roland Owsnitzki - Berliner Festspiele)

Di ben altra temperie – pur evocando l’afflato mistico-rituale che è sembrato accomunare, a Berlino, la prospettiva chicagoana – il concerto di Ben LaMar Gay: musicista dalle mille contaminazioni e ispirazioni, che con il suo ensemble ha portato un mix esplosivo di afrofuturismo, groove, electro-soul e atmosfere tribali in cui il riferimento al passato, tutt’altro che nostalgico, si proietta splendidamente sul presente.

Sul rapporto fecondo tra radici e contemporaneità, del resto, il Jazzfest aveva decisamente scommesso dedicando ampio spazio alla musica tradizionale popolare dell’Est europeo, riscoperta e riletta con la sensibilità del jazz e dell’improvvisazione. Con una felice deviazione anche in Italia, che, tra le tante proposte e alcune scelte sofferte, non ha deluso le aspettative: set emozionante e toccante, quello della violinista Silvia Tarozzi e della violoncellista Deborah Walker, entrambe anche alla voce, che hanno accompagnato l’ascoltatore, con i loro Canti di guerra, di lavoro e d’amore (Unseenworlds, 2022), in un mondo antico, ridefinendolo ma al tempo stesso preservandone l’eco, vocalità stranianti e pur autentiche, narrazione rarefatta e costruita sapientemente nel tempo, brividi che percorrono il corpo.

Silvia Tarozzi e Deborah Walker (foto Anna Niedermeier - Berliner Festspiele)
Silvia Tarozzi e Deborah Walker (foto Anna Niedermeier - Berliner Festspiele)

Nella prospettiva a tutto tondo adottata a Berlino, accanto a un breve passaggio a New York – con Craig Taborn e un nuovo progetto di impronta elettronica da un lato, e il sempre raffinato Borderlands Trio di Kris Davis dall’altro –, un posto d’onore è stato riservato al veterano dell’improvvisazione radicale europea Sven-Åke Johansson, omaggiato dal festival con la proiezione di Blue for a Moment (Antoine Prum, 2017) documentario attraverso cui conoscerne la poliedrica e pluridecennale ricerca artistica, per poi vederlo in azione come direttore d’orchestra nell’immaginifica e irriverente MM Schäumend, Ouverture per 15 estintori, o alla batteria in trio con Bertrand Denzler (sax tenore) e Joel Grip (contrabbasso), come pure in quintetto nel progetto Stumps. Elegante e attento, drumming radicale ma con uno swing sotterraneo che non viene mai meno, artigianato nel migliore senso del termine e figura magistrale in cui passato e presente si intersecano senza soluzione di continuità.

Sguardo al passato che si fa presente, dunque, e sguardo al presente che si proietta sul futuro, a Berlino, con una forte presenza di artiste e artisti delle nuove generazioni che, tanto nella Festspielhaus quanto nei club A-Trane e Quasimodo, hanno saputo dialogare con un pubblico qui ugualmente giovane: pensiamo ad esempio alla sassofonista danese Mette Rasmussen, all’americano Immanuel Wilkins, ma anche alla percussionista francese Camille Émaille, ancora sconosciuta in Italia ma di sicuro interesse, come pure a Sun-Mi Hong, che con il suo quintetto ha proposto un concerto di ottima fattura, e con validi collaboratori tra cui spicca alla tromba Alistair Payne.

Altra perla del festival, per chi scrive, il concerto dei giovani Quartabê, formazione di San Paolo – con l’ormai nota batterista Maria Portugal, da un paio d’anni attiva in Germania e che qui sta intessendo sempre più collaborazioni nel tessuto locale ed europeo –, Joana Queiroz e Maria Beraldo a clarinetto e clarinetto basso, e Chicão alle tastiere. Un set che ha immerso il pubblico nella “lezione” del grande compositore brasiliano Dorival Caymmi, a cui i Quartabê hanno dedicato il loro ultimo album del 2018 (Lição #2: Dorival, Selo RISCO), lavorando per scomposizione e reinterpretazione di cellule sonore; set trasognato e misterioso con grande sintonia di gruppo, ispirato al tema dell’acqua e come l’acqua fluido, avanzando per ondate sonore ora lievi ora imponenti, in una sala avvolta nell’oscurità e nel silenzio del pubblico in ascolto: magico.

Supersonic Orchestra (foto Roland Owsnitzki - Berliner Festspiele)
Supersonic Orchestra (foto Roland Owsnitzki - Berliner Festspiele)

Gran finale animatissimo, infine – a scuotere ancora il corpo dopo i frenetici quattro giorni berlinesi – con il suono del norvegese Gard Nielssen e della sua esplosiva Supersonic Orchestra – formazione di una ventina di elementi, con giovani improvvisatori talentuosi della scena nordica, possente sezione fiati e ritmica tripicata –, che ha presentato gioiosamente e con un sound imponente brani dall’ultimo comune lavoro (If you listen carefully the music is yours, ECM, 2020), tra parti scritte e improvvisazioni, con il furioso solo di Mette Rasmussen a dare il via alle danze: conclusione in bellezza di un festival che si caratterizza come uno tra i più interessanti nel panorama europeo e internazionale, per darsi appuntamento tra un anno a festeggiare il 60° compleanno del Jazzfest Berlin.

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