Le Villi riammaliano il Regio
Torino: Frizza sul podio e regia di Maestrini
A un venticinquenne che scrive «Tu dell’infanzia mia» chiunque dotato di senno darebbe le chiavi del proprio teatro. I piani alti del Teatro Regio di centoquarant’anni fa erano assennatissimi e fecero rappresentare a Giacomo Puccini Le villi, suo titolo d’esordio, in una seconda versione rimaneggiata con un paio di arie aggiunte. I piani alti del Teatro Regio di oggi sono altrettanto assennati e riportano in scena questa seconda versione legata a Torino, meravigliosamente piena di difetti ed estro musicale, in una stagione lirica che più di ogni altra in Italia sta dando spazio a Puccini nel centenario della sua morte.
Le villi nasce come candidata a un concorso Sonzogno del 1883 dove il bando chiedeva un’opera che fosse, da un lato, aggiornata ai «portati della scienza dei suoni contemporanei», dall’altro fedele «alle buone tradizioni dell’opera italiana». Puccini, che oltre a essere bravo era furbo, ci mise un po’ di tutto: dalla Francia l’ibridazione con il ballo, dalla Germania il sinfonismo e il fantastico, ma un fantastico all’italiana, il cui grande precedente era il Macbeth di Verdi, con la geniale intuizione di far danzare le streghe sui ritmi di tarantelle infernali, idea che Puccini arrubberà per far danzare le magiche sue Villi in un rito per l’esorcismo d’un amore mancato – e rileviamo che lo studio di De Martino sul tarantismo era ben di là da arrivare.
Al Regio abbiamo potuto apprezzare questo e altro in una regia di Pier Francesco Maestrini che nel primo atto dà vita a un’elegante scène de vie borghese, con gestualità e costumi (di Luca Dall’Alpi) che riportano al mondo del film con i più bei costumi di tutta la storia del cinema (Policarpo, ufficiale di scrittura); nell’Intermezzo sinfonico a una danza dai toni licenziosi sotto il licenzioso quadro della Femme au perroquet di Courbet; nel secondo atto a un bosco dove il rito si consumerà e al fedifrago Roberto la tradita Anna strapperà il cuore dal petto, come in Indiana Jones e il tempio maledetto. Il vicino di posto di chi scrive, strizzando gli occhi, da lontano stentava a capire che fosse un cuore: per la prossima volta si può provare a spingere sul gore e farlo grondare sangue.
Sia Anna (Roberta Mantegna) sia Roberto (Azer Zada) sia Guglielmo (Simone Piazzola) sono dotati di voci belle e duttili, capaci di tornire raffinate sfumature dinamiche nel loro fraseggio, e eventuali imperfezioni sono veniali davanti a tanta musicalità. La direzione di Riccardo Frizza è abile nel «far ballare l’orchestra», come diceva Verdi, e sbalzare l’intreccio di voci strumentali, ma non sembra assecondare troppo l’inventiva musicale dei cantanti, rimanendo dinamicamente piuttosto uniforme, anzi, uniforte. Il giovane compositore è promettente e farà carriera, si spera che gli applausi del pubblico lo incoraggino a proseguire.
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