Le diverse anime del Festival Aperto

Da Zamboni a Stockhausen e Riley, da Franceschini al Beethoven del “catalano” Savall: le prime tappe della rassegna di Reggio Emilia

Songbook  (Foto Anceschi)
Songbook (Foto Anceschi)
Recensione
classica
Reggio Emilia
Festival Aperto
21 Settembre 2019 - 17 Ottobre 2019

Per restituire l’idea di fondo che amina la concezione del Festival Aperto di Reggio Emilia in questa edizione 2019, appare interessante passare in rassegna alcuni appuntamenti che, dal 21 settembre al 17 ottobre, hanno avviato il versante musicale della manifestazione. Una galleria di proposte anche molto diverse tra loro, che hanno condiviso un approccio originale che incarna anche l’accettazione dei rischi che comporta un’indagine espressiva che va oltre i tracciati consolidati, elemento questo che appare segno meritorio della miscela delle diverse anime della creatività contemporanea che emerge come la concreta restituzione del concetto di “aperto”.

 

L’appuntamento inaugurale ha proposto un omaggio all’eredità culturale, storica e sociale locale, con “Il richiamo degli scomparsi”, progetto di Massimo Zamboni, ospitato al teatro Valli in apertura del Festival, nel quale il chitarrista, cantante e scrittore ha proposto una riflessione su Reggio Emilia, il suo territorio e i protagonisti della sua storia più o meno recente. A condividere questa esperienza sul palco l’ex chitarrista dei CCCP e CSI ha radunato attorno a sé un gruppo di amici vecchi e nuovi, da Nada a Ginevra Di Marco e Marina Parente, da Vasco Brondi al rapper Murubutu, oltre a scrittori come Aldo Nove ed Emilio Rentocchini chiamati a recitare alcuni versi in italiano e in dialetto. Segnata da un commento visivo (regia di Fabio Cherstich, filmati di Piergiorgio Casotti) che alternava immagini dei personaggi che hanno animato la storia e la vita di Reggio Emilia e della sua terra, la serata ha reso omaggio, tra gli altri, a figure quali Zavattini, Tondelli, Daolio, Valli, i Sarzi, Reggiani, Marisa Bonazzi, D’Arzo, Antonio Ligabue, Alcide Cervi, Giovanna Daffini, sino a Chierici, Ariosto e Boiardo. Una galleria di “scomparsi”, appunto, che hanno lasciato un’eredità ideale, rievocata dalla sequenza di brani che Zamboni ha passato in rassegna assieme a Erik Montanari (chitarre), Cristiano Roversi (basso), Simone Filippi (percussioni), oltre all’Orchestra delle Riapparizioni e al Concerto a fiato L’Usignolo. Un dialogo tra palcoscenico e pubblico sicuramente gravido di emotività, che ha fatto registrare alcuni dei momenti più intensi grazie a brani quali “Battagliero” o “Emilia paranoica”, ma che è parso segnato da un velo nostalgico e un poco autocelebrativo. Caratteri che forse erano comunque messi in conto per un’iniziativa salutata dai convinti applausi di un teatro affollato.

 

Di segno completamente differente si è rivelata la giornata di sabato 5 ottobre, il cui primo appuntamento ha previsto il progetto titolato “Gaze through the Stars”, nel quale Ricciarda Belgiojoso e Walter Prati ci hanno accompagnati nell’esplorazione di due brani che potremmo definire per diversi aspetti iconici come Tierkreis di Karlheinz Stockhausen e A Rainbow in curved Air di Terry Riley. Ideate a qualche anno di distanza – nel 1975 la prima e nel 1969 la seconda – le due composizioni rappresentano un’interessante campo di prova espressivo per le loro peculiari proprietà strutturali che connotano le diverse combinazioni strumentali ed elettroniche. Oggetto di costante interesse – ne abbiamo peraltro seguita una diversa interpretazione lo scorso anno – Tierkreis è un brano nel quale le dodici melodie che rimandano ai rispettivi segni zodiacali divengono altrettante tracce aperte per peregrinazioni che in questa occasione i due artisti impegnati hanno declinato in un colloquio tra tastiere ed elettronica decisamente pregnante. Da un lato i tratteggi tra pianoforte e sintetizzatori di Belgiojoso hanno disegnato con gusto efficace le diverse tracce melodiche, dall’altro le incursioni elettroniche di Prati hanno plasmato gli undici interludi inseriti fra i dodici segni dello Zodiaco, elaborati partendo dai suoni tratti dai campi magnetici dei pianeti, pescati dagli archivi della Nasa. Un percorso di ascolto segnato da un approccio interpretativo originale, che abbiamo ritrovato, pur con diversa connotazione, anche nella pagina di Riley, nella quale l’andamento reiterativo dei pattern melodico-ritmici ha trovato una lettura dalla dinamica interiore decisamente interessante, capace di restituirci questo brano a distanza di cinquant’anni dalla sua composizione con una freschezza che ha convinto anche l’attento pubblico raccolto sul palcoscenico del Valli.

Più interlocutorio ci è parso invece il secondo appuntamento della serata, che vedeva protagonista al teatro Cavallerizza Songbook, composizione per quartetto rock, ensemble amplificato ed elettronica di Matteo Franceschini, compositore Leone d’Argento alla Biennale Musica 2019, che ha impegnato Bruno Helstroffer (chitarra elettrica e acustica, tiorba), Antonio Siringo (pianoforte, tastiere), lo stesso Franceschini (live electronics, basso elettrico) e Stefano Pisetta (batteria, percussioni), oltre agli ensemble Icarus e Cantus, con la direzione di Francesco Bossaglia. Del brano abbiamo già parlato sul nostro giornale in occasione della sua esecuzione alla Biennale Musica di Venezia: qui possiamo aggiungere che l’impressione raccolta in occasione di questa esecuzione è andata nella direzione in un patchwork timbrico-strumentale assemblato con connotazione effettistica più che espressiva, arricchito da giochi di luci che ci sono parsi un poco ridondanti.

 

Per l’ultima tappa di questo primo excursus attraverso la programmazione del Festival Aperto, abbiamo assistito lo scorso 17 ottobre al concerto che Jordi Savall ha tenuto alla guida de Le Concert des Nations, compagine creata dal maestro catalano e da Montserrat Figueras nel 1989 al fine di disporre di una formazione capace di interpretare su strumenti d’epoca un repertorio che va dal Barocco fino al periodo romantico. Immersi quindi nell’anima “classica” del festival emiliano, abbiamo seguito un programma che ha compreso le sinfone Terza Quinta di Beethoven, repertorio naturalmente popolarissimo che ha richiamato il numeroso pubblico presente nella sala del Valli in occasione di un appuntamento che ha aperto contestualmente anche la stagione concertistica del teatro. Collocata in un progetto europeo di ricerca sull’interpretazione titolato “Beethoven Académie 250”, concepito e costruito dallo stesso Savall, la lettura offerta in questa occasione è emersa per il segno dinamico coinvolgente, caratterizzato da una scelta di tempi originale e ben delineata, assecondata con costante precisione da un’orchestra che ha dato prova di aderire alla lettera alla visione interpretativa del direttore. Un dato arricchito dalle trasparenze emerse dai dialoghi tra le classi strumentali, ora espresse nei passaggi contrappuntistici, ora valorizzate da una qualità timbrica che, se nell’Eroica ha visto nei corni i contributi meno cristallini (ma occorre tenere presente che di corni naturali si trattava), ha trovato pieno compimento in una suggestiva esecuzione della Quinta. Un segno interpretativo quello di Savall che, se chi scrive non colloca nel novero delle vette di riferimento del repertorio beethoveniano, offre sicuramente più di un motivo di fascinoso interesse.

 

Per la cronaca, vogliamo ricordare che questo concerto è stato dedicato dallo staff della fondazione I Teatri a Roberto Predieri, collega prematuramente scomparso, e che a fine serata Jordi Savall ha ricordato la critica situazione catalana con queste parole: «il Beethoven cui abbiamo reso omaggio stasera vedeva la bellezza nella libertà dell’uomo. Oggi, questa libertà è meno forte e più minacciata. Alcuni dirigenti del mio piccolo paese, la Catalogna, sono stati condannati per complessivi cento anni di carcere per aver cercato di realizzare un programma per cui erano stati eletti. Una condanna durissima, che poteva essere evitata con un minimo di buon senso e spirito di collaborazione».

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