L’Arte della fuga in Technicolor

L’Accademia Bizantina esegue il capolavoro di Bach per l’Accademia Filarmonica Romana

L'Accademia Bizantina
L'Accademia Bizantina
Recensione
classica
Roma, Teatro Argentina
L'Accademia Bizantina
17 Gennaio 2019

Rivolgendosi al pubblico presente al primo concerto della nuova stagione concertistica organizzata dall’Accademia Filarmonica Romana al Teatro Argentina, il direttore artistico Andrea Lucchesini ha voluto ricordare come la musica da camera sia in un certo senso l’essenza stessa della musica, il luogo del dialogo e della democrazia tra gli esecutori, dove grazie al comune linguaggio delle sette note si può superare ogni difficoltà di comunicazione tra gli esseri umani.

Emblematica dunque la scelta di inaugurare con un programma come Die Kunst der Fuge (L’arte della fuga) di Bach, sorta di ‘summa’ della scienza contrappuntistica, alla quale il musicista di Eisenach fa stretto riferimento nel costruire, su un unico tema in re minore, le diverse possibilità di dialogo tra parti, che però nel manoscritto autografo non contengono alcuna indicazione strumentale. La possibilità di una realizzazione dell’intera opera sul clavicembalo o sull’organo se da un lato è plausibile storicamente, dall’altro è resa un po’ problematica dalla scrittura di alcune fughe, che obbliga l’esecutore a degli adattamenti. La partitura, d’altro canto, sembra invitare – con le sue linee separate che meglio evidenziano la trama della polifonia – anche a un’esecuzione affidata a più strumenti, possibilmente appartenenti alla stessa famiglia. La scelta dell’Accademia Bizantina, protagonista del concerto insieme al suo direttore Ottavio Dantone, ha puntato a una sorta di sintesi, utilizzando dunque un quartetto d’archi insieme a un clavicembalo e a un organo. La soluzione, che in parte si ricollega a quella adottata da Musica Antiqua Köln, è stata già presentata dal gruppo italiano in diverse occasioni, nonché discograficamente, e ha consentito – come sottolineato dallo stesso Dantone – di “vestire con più colori possibili la musica di Bach”. Risultato senz’altro affascinante, il cui principale merito è quello di aver agevolato non poco, attraverso la variabilità dell’organico, la fruizione di un’opera monumentale ma impegnativa per via del contenuto altamente speculativo, per non parlare della sua durata ininterrotta di quasi un’ora e mezza. Molto bello l’inizio dell’opera, col Contrapunctus I affidato ai soli archi, i quali hanno avviato il loro dialogo esattamente come persone che si sono date appuntamento e iniziano a parlarsi l’un l’altro e a rispondersi, potendo contare su un linguaggio condiviso. Particolarmente d’effetto anche alcune soluzioni timbriche, come quella – si trattava del Contrapunctus X – in cui sulle sonorità dell’organo chiamato a eseguire l’intera partitura, si sono inseriti a turno gli archi, suonando con intensità ridotta, come per costituire una specie di ‘ripieno’. E soprattutto apprezzabile è stata la scelta di prevedere quegli interventi sporadici, grazie ai quali i vari strumenti a turno sono andati a sottolineare gli elementi tematici da mettere in evidenza, per una migliore comprensione del contrappunto bachiano. Una regia musicale ben riuscita, insomma, quella con cui Dantone ha distribuito l’intero materiale musicale, stabilendo chi dovesse suonare e quando, come in un immaginario teatro in cui gli attori devono ripartirsi le battute di un testo letterario. Peccato solo che non vi sia stata altrettanta cura nella regia ‘scenica’, che avrebbe potuto organizzare gli spostamenti degli strumenti ad arco sul palco dell’Argentina in modo da renderli meno meccanici, al termine dei brani in cui dovevano farsi da parte per lasciare spazio alle tastiere. Ma l’arte del Kantor in effetti si può ascoltare anche a occhi chiusi, come è sembrato testimoniare il lungo applauso finale da parte del pubblico che affollava il teatro della Capitale, con cui i musicisti sono stati ripagati al termine della impegnativa impresa che avevano portato al termine con successo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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