L’Amico Fritz,  da dramma sentimentale a commedia

Firenze: Rosetta Cucchi riambienta e ridefinisce con esito brillante l’opera di Pietro Mascagni, molto bene cast e orchestra sotto la guida di Riccardo Frizza

Amico Fritz (Foto Michele Monasta)
Amico Fritz (Foto Michele Monasta)
Recensione
classica
Teatro del Maggio Musicale Fiorentino
Amico Fritz
01 Marzo 2022 - 12 Marzo 2022

Un nuovo allestimento dell’Amico Fritz, la seconda opera di Pietro Mascagni dopo il trionfale successo di Cavalleria Rusticana, si dà in questi giorni al nuovo auditorium da mille posti, intitolato a Zubin Mehta, al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. Per una volta, e contrariamente – almeno a parere di chi scrive - al giusto ordine d’importanza, partiamo dalla regìa di questo Amico Fritz, e non dalla musica. Rosetta Cucchi ha trasposto la vicenda, tratta dal romanzo omonimo degli alsaziani Erkmann e Chatrian, dall’Alsazia dell’Ottocento alla comunità ebraica (giacché qui c’è un rabbino, David, in funzione di padre spirituale) di una New York più o meno moderna, tra anni ‘50 e oggi: sfondi di case e scale antincendio come nella Finestra sul cortile o West Side Story, il poliziotto di ronda, ma anche due tipette in stile Sex and the City, e altra varia umanità, con le azzeccatissime scene (l’elegante wine bar newyorkese e la fattoria) e costumi di Gary McCann, e le luci di Daniele Naldi, sempre gestendo molto bene certe scene vivaci e affollatissime pur nel più piccolo palcoscenico dell’auditorium Zubin Mehta. Ciò ci lascia un Fritz Kobus possidente e scapolo preteso impenitente, ci lascia il rabbino nel suo ruolo, ci lascia gli amiconi, Federico, Hanezò, e lo zingaro violinista Beppe, ma trasforma la piccola Suzel in un’accorta amministratrice del vino Kobus  – del resto di donne d’affari con un segreto sogno d’amore ce  n’è anche nelle serie televisive di oggidì - e nemmeno così edotta sulla Torah come vorrebbe far credere al rabbino, visto che… ma non sveliamo questa soluzione registica che ci ha deliziato, al pari di altre, giacché le repliche sono sempre in corso, se non per dire che così facendo la Cucchi ha complessivamente riorentato verso la commedia sentimentale moderna una storia che Verdi aveva giudicato il soggetto più scemo che avesse mai letto, e che mandava addirittura fuori dai gangheri D’Annunzio, mentre oltralpe L’amico Fritz avrebbe ricevuto i consensi di Hanslick e Mahler, che la diresse e la difese affermando di avere compreso “le sue sottigliezze e le sue difficoltà di esecuzione”. Peccato che Mascagni esibisca sì tali “sottigliezze”, i più larghi nessi armonici per far fluttuare liberamente la fraseologia, le più studiate soluzioni timbriche (che del resto, ci sembra, erano oramai patrimonio compositivo abbastanza diffuso); ma sostanzialmente le usi per dar fiato al lirismo malinconico e grandeggiante che è nelle sue corde, ma stona alquanto con la storia, e qui non difetta certo di retorica: e su questo non c’è regìa che possa far molto. All’epoca  si sapeva trovare il grande, l’universale, il cosmico, in questo caso l’Amore con la A maiuscola, anche nelle piccole cose e nelle piccole storie: Pascoli, Puccini, i pittori macchiaioli lo sapevano fare, come si sa, ma per Mascagni fu forse un terreno scivoloso, e maiuscoleggiò anche troppo. E dunque viva questa riconversione alla commedia, che rende di nuovo gradevole e accettabile L’Amico Fritz, togliendola dal limbo delle opere care ai melomani d’altri tempi, con i suoi fiori e le sue ciliege.

Quanto ai valori della partitura, alla sua ricerca più accurata rispetto al lessico di Cavalleria, Riccardo Frizza ci ha creduto fino in fondo e ci ha consegnato un Amico Fritz sul suo versante, più nobilitante, caldo ma complessivamente misurato. I protagonisti, Salome Jicia che torna a Firenze dopo la Straniera di qualche anno fa, e Charles Castronovo, sono cantanti oggi molto in vista e ci sono piaciuti moltissimo scenicamente, dimostrando valore e perizia anche sul piano vocale, ma forse il passaggio dai ruoli più leggeri e addirittura belcantistici (o del teatro musicale francese) alla vocalità spiegata e perorante della Giovane Scuola ha ancora bisogno, per loro, di qualche messa a punto. Abbiamo apprezzato senza riserve il rabbino David di Massimo Cavalletti e il Beppe di Teresa Iervolino, bravi anche Dave Monaco e Francesco Samuele Venuti come Federico e Hanezò, quanto a Caterina Meldolesi, da governante di Fritz, passa qui ad essere una camerierina svelta e sveglia, e nonostante la piccola parte musicale si fa perno registico di buona parte dell’invenzione teatrale.  Una lode speciale a Salvatore Quaranta, il nuovo violino di spalla dell’Orchestra del Maggio, per il grande assolo violinistico, un vero e proprio pezzo da concerto, che accompagna l’arrivo di Beppe lo zingaro, e poi diventa tema principale dell’intermezzo sinfonico. L’opera, con grande vantaggio, si dava come un atto unico in tre quadri, senza intervallo. Repliche mercoledì 9 alle 20 e sabato12 alle 18.

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