La Turandot di Ai Weiwei a Roma

Il famoso artista cinese  ha preso spunto dall’opera di Puccini per portare in scena il suo mondo più che quello del compositore

Turandot (Foto Fabrizio Sansoni)
Turandot (Foto Fabrizio Sansoni)
Recensione
classica
Turandot
Roma, Teatro dell’Opera
22 Marzo 2022 - 31 Marzo 2022

Già programmata nel 2020 e poi rinviata al 2021 ed entrambe le volte cancellata per i lockdown, è arrivata finalmente al traguardo la Turandot  di Ai Weiwei: in questo caso ci si può permettere l’altrimenti insopportabile vezzo di chiamare un’opera col nome del responsabile della parte visiva, perché l’evento della serata era il debutto in campo operistico del poliedrico artista concettuale cinese, che è indubbiamente uno degli autori a cui più è rivolta l’attenzione del mondo artistico contemporaneo, tanto che lan Cina, nonostante le sue critiche non troppo velate al regime, preferisce non attirarsi accuse di dispotismo e , dopo averlo perseguitato per anni, gli lascia una certa libertà d’azione, ora che è diventato famoso nel mondo.

Ai (è il suo cognome) non aveva mai avuto contatti col mondo dell’opera, tranne una comparsata in una Turandot quand’era ragazzo, e ha dichiarato che questo sarebbe rimasto un unicum, perché l’opera non lo interessa. Di questo gli spettatori si sono accorti subito, perché lo spettacolo non aveva nulla a che vedere con la fiaba messa in musica da Puccini. Eppure l’ “operazione” tentata con coraggio e/o spregiudicatezza dal Teatro dell’Opera può dirsi riuscita. Non tanto perché alla prima fosse presente il pubblico dei grandi eventi - non solo la mondanità ma anche esponenti dell’arte e della cultura - e anche le repliche siano già totalmente esaurite, quanto perché lo spettacolo, pur sovrapponendosi prepotentemente alla musica e distraendo inevitabilmente dall’ascolto, ha una sua innegabile forza di comunicazione, che non può lasciare indifferenti. Magari è irritante, ma lascia il segno.

Ai non racconta la Turandot ma racconta quel che a lui interessa, cioè le crisi e le catastrofi del nostro tempo. La scena è quasi vuota, tranne una grande scala e pochi mozziconi di muri diroccati; i solisti e il coro sono quasi immobili e gli unici a movimentare un po’ l’azione sono i mimi, di cui però Ai non si è curato, affidandoli a Chiang Ching. Lo spettacolo creato da Ai si svolge interamente sul grande schermo in fondo al palcoscenico, su cui viene proiettata una continua e incalzante sequela di filmati d’archivio e di immagini realizzate al pc. Le prime immagini raccontano la disumanità della Cina moderna: sterminate città, nugoli di grattacieli, folle che si pigiano nelle strade e nella metropolitana, labirintici snodi autostradali, medici e pazienti negli ospedali al tempo del Covid e soprattutto la brutale repressione delle proteste a Honk Kong nel 2019-2020. Forse le folle che si accalcano in quelle città non sono troppo diverse dal popolo di Pechino e le guardie dell’imperatore sono brutali quasi come la polizia di Xi? Forse, ma sicuramente il rapporto tra immagini e musica è totalmente sbilanciato a favore delle prime, che sostanzialmente prescindono dalla seconda e la soverchiano.

Una lontana e molto libera relazione tra immagini e musica si può riconoscere nel volteggiare di telecamere di sorveglianza, manette, catene (dorate, perché il regime reprime la libertà ma  la ripaga col benessere economico) e anche uccellini di twitter (perché anche i social media sono usati per controllarci, sorvegliarci e in definitiva imprigionarci), che si intrecciano in coreografie astrali quando nel secondo atto compare l’Imperatore, come se Ai volesse ricordarci gli strumenti di governo usati dal nuovo “imperatore” della Cina. Nel terzo atto sullo schermo appaiono soprattutto migranti (forse che non lo sono anche Calaf e Liù?), che dapprima vengono rappresentati in modo piuttosto bizzarro, cioè con disegni che ricordano la pittura vascolare attica (evidentemente Ai pensa ai migranti che dal vicino oriente cercano di traversare l’Egeo e giungere in Grecia) e poi con filmati di barconi stracarichi di povera gente.

Ci vorrebbe un cuore da Abigaille per non restare profondamente colpiti e turbati da tali immagini. Ma resta la domanda: è una rappresentazione di Turandot il luogo più adatto per mostrare tutto ciò? Ai risponderebbe: “Sì, tutto questo è troppo importante, più importante della favola di Turandot”. Personalmente avrei qualche dubbio che questa sia una risposta pertinente. I melomani nell’intervallo erano inferociti, eppure alla fine ci sono stati appena un paio di flebilissimi fischi indirizzati a Ai Weiwei ed ai suoi collaboratori, perché in qualche modo tutti hanno avvertito la forza dello spettacolo creato dall’artista cinese.

E la parte musicale? Si è già detto che era difficile non lasciarsi distrarre da quel che si vedeva, ma credo di aver sentito abbastanza per poter dire che era di un livello buono ma non eccezionale e che, se non ci fosse stato Ai, di questa Turandot  si sarebbe parlato poco. La migliore in campo era Francesca Dotto, che dopo diversi anni tornava a Roma in un ruolo finalmente adatto a lei. È un soprano lirico dalla voce pura e limpida, con la giusta dose di vibrato, acuti soavi e bei filati, quindi è ideale per Liù, la cui morte è stata dolce e commovente, come deve essere, ma senza sentimentalismo strappalacrime. Fra l’altro è con quell’aria e con la breve trenodia che la segue che l’opera si è conclusa in questo caso, risparmiandoci gli inutili venti minuti del finale posticcio che il povero Alfano fu quasi costretto a scrivere.

Oksana Dyka era Turandot: la sua voce non è d’acciaio come quella di altre “principesse di gelo” e qua e là si avverte una certa fatica, eppure l’abbiamo preferita a quelle cantanti che sommergono l’ascoltatore con una voce d’inflessibile acciaio e lo bombardano (lo so, sarebbe meglio in questi momenti non usare tale parola e riservarla ai ben più gravi eventi che stanno accadendo proprio in Ucraina, il paese della Dyka) di decibel dall’inizio alla fine. Invece la Turandot della Dyka ha momenti di fragilità, smarrimento, dubbio, paura. A differenza di tante (tutte) le altre, lei (anche perché ha un’ottima dizione italiana) fa avvertire benissimo questi suoi umanissimi sentimenti , per esempio quando supplica il padre di non darla in sposa a Calaf: non credo di esagerare se dico che non l’avevo mai sentito così. Lo statunitense Michael Fabiano è un cantante pucciniano, nel senso di Manon Lescaut, Bohème  e Tosca, dunque è un tenore lirico  e questo è un buon inizio per Calaf, che non consiste soltanto nel triplice “Vincerò” e che soprattutto non deve cantarlo come un proclama bellicoso. Per il resto, è un buon Calaf, ma senza particolari meriti. Nella norma Antonio Di Matteo (Timur), debolucci Rodrigo Ortiz e Andrii Ganchuk (Altoum e Mandarino). Non bene assortiti i tre Ministri (Alessio Verna, Enrico Iviglia e Pietro Picone), che alla fine si sono anche presi consistenti fischi, che non avrebbero meritato.

Dirigeva Oksana Lyniv, salutata al suo ingresso da applausi molto calorosi, sicuramente per manifestare solidarietà al suo paese, l’Ucraina. Un po’ meno entusiastici gli applausi per lei alla fine. Con gesto asciutto e preciso, la Lyniv ha dato tagliente vigore alle pagine più moderniste dell’ultimo Puccini, ma spesso rendendole un po’ troppo roboanti, a scapito delle voci che talvolta faticavano a non farsi sommergere. Sicuramente la sua attenzione andava soprattutto all’orchestra e poco alle voci e anche a questo si devono alcune - non gravissime - sfasature tra la buca e il palcoscenico. Una direzione un po’ fredda, che però proprio alla fine ha dato un fondamentale contributo alla palpabile commozione che ha avvolto il pubblico al momento della morte di Liù.

 

 

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